Trame di storia
Fondazione Collegio San Carlo, Galleria Verticale, 31 gennaio - 17 aprile 2025
La collezione di tessuti della chiesa di San Carlo si compone di circa 700 oggetti fra paramenti sacri in terzo o in quarto, talvolta completi (pianete, piviali, stole, manipoli, borse di corporale, veli da calice, ma anche paliotti), databili fra il XVII se il XX secolo, cui vanno affiancati numerosi elementi di biancheria (tovaglie, lavamani, palle e altri elementi di corredo) che recano talvolta merletti a mano o preziosi inserti a ricamo. Questo arco temporale corrisponde ad un passaggio di testimone dall’egemonia delle manifatture italiane – fra cui le sete lucchesi, rappresentate in collezione – alla specializzazione dei centri di produzione tessile francesi, come le Manifactures Royales des Gobelins o la Grande Fabrique Lyonnaise, fino all’avvento del telaio meccanico.
Come ha sottolineato Iolanda Silvestri, autrice del primo studio approfondito sui tessuti del San Carlo, solo una minima parte del patrimonio tessile serico della regione Emilia Romagna ci è pervenuta, “a fronte di un patrimonio ben più ricco e variegato di manufatti che nel tempo è andato disperso e irrimediabilmente perduto”. Questa considerazione, valida e applicabile alla maggior parte dei patrimoni tessili, va sempre tenuta a mente nel costruire una storia del tessuto; d’altra parte questa perdita può trovare una sua giustificazione, e insieme un suo riscatto, proprio nell’analisi dei patrimoni secolari delle chiese, come nel caso della collezione del San Carlo.
Il riciclo nella storia: la nuova vita del tessile di pregio
Uno dei motivi che hanno causato la dispersione dei manufatti tessili è legato alla loro stessa storia. Nei quattro secoli che coincidono con la storia del Collegio San Carlo, nato nel 1626, la nobiltà di più alto lignaggio e più strettamente legata alle corti italiane ed europee ha considerato l’apparato tessile – per abbigliamento o per tappezzeria – come bene di consumo da sostituire spesso o relativamente di frequente, parte della definizione di status symbol in modo non dissimile, sebbene più lento e impegnativo, da quanto avviene oggi.
Le importanti metrature di stoffe di pregio che ne risultavano venivano rivendute o, talvolta, donate alle chiese per essere riutilizzate come paramenti. Il valore dei tessuti, di cui si parlerà nei singoli capitoli, ne faceva talvolta addirittura merce di scambio o di saldo parziale di alcuni debiti: ad esempio nelle carte d’archivio del Collegio si ha memoria di un benefattore, Giovan Paolo Brizi, che aveva un credito nei confronti dei principi di casa d’Este rimborsato metà in franchi, e per l’altra parte con un abito “che servì poi a fare una pianeta”.
Qualunque fosse la prima destinazione delle manifatture, è in forma di paramento sacerdotale che, spesso, sono oggi conservate: il clero, soprattutto quello locale, per nostra fortuna ha adottato un atteggiamento molto più conservativo mantenendo in uso i paramenti ricavati con le stoffe nobiliari ben oltre i limiti temporali imposti dalla moda.
Mutare i tagli, gli usi e i portatori non ha naturalmente intaccato il valore del manufatto originale in sé. Questo è il motivo per cui, in mostra, abbiamo scelto di presentare i tessuti e solo in seconda battuta la loro forma attuale: divenuti pianete, piviali, dalmatiche o veli da calice, i manufatti serici hanno una loro valenza che prescinde dal taglio.
Le stoffe in mostra sono frutto di maestranze troppo spesso anonime le cui competenze sono un bene che oggi alcuni centri tessili di grande livello – come il Centre International d’Etude des Textiles Anciens (CIETA) di Lione o la Fondazione Lisio di Firenze – tengono vivo e tramandano.
- Bernard Tassinari, La soie à Lyon de la Grande Fabrique aux Textiles du XXI siècle, 2012
- https://maisondescanuts.fr/
1 – IL DAMASCO ROSSO CORALLO
BROCCATO A FILO D’ARGENTO

L’oggetto: la pianeta
La pianeta, o casula, è la veste del sacerdote. Come attestano i dipinti delle catacombe e, successivamente, come narra Strabone (808-849) abate, teologo e poeta tedesco, la foggia delle pianete deriva dalle antiche vesti civili greche e romane.
Se nell’uso civile l’influenza delle popolazioni provenienti dal Nord Europa e dall’Asia determinò notevoli cambiamenti nell’abbigliamento con l’introduzione, fra l’altro, dei pantaloni, in ambito ecclesiastico le vesti talari rimasero legate ai tagli antichi. In epoca carolingia i vari paramenti caratteristici dei diversi gradi del sacramento dell’ordine furono fissati e standardizzati assumendo, così, la forma che hanno ancora oggi; fa eccezione la sola pianeta che ha avuto una evoluzione sua propria.
Nata come veste di grande ampiezza ai primordi del cristianesimo, lunga fino alle caviglie e oltre i polsi, la pianeta fu progressivamente ridotta per arrivare alla perdita totale delle maniche nella foggia più minuta, ma anche più spesso foderata e rigida, dell’esemplare qui illustrato.
Questo taglio, usuale nei secoli XVI-XIX, è ancora oggi chiamato “casula romana”. Fu poi reintrodotta gradualmente, nel corso del Novecento, la foggia più ampia oggi frequentemente in uso nella chiesa cattolica.

La lavorazione: la veste come distintivo sociale
Questa manifattura ha una base in damasco – ovvero un tessuto lavorato con un solo ordito e una sola trama, nel quale trama e ordito creano disegni opachi su fondo lucido, o viceversa – broccata con argento filato, argento riccio, blu, celeste, rosa, il tutto completato da un gallone in oro filato coevo. Il disegno di questa manifattura, detto “a pizzo”, incontrò il gusto della nobiltà e della corte francese a partire dal 1680 circa e rimase in auge, con moltissime varianti in parte rappresentate in questa mostra, fino alla metà del Settecento.
In particolare l’attenzione già evidente per il motivo naturalistico, con rami di fiori e foglie adagiati su un fondo di pizzo d’argento a sviluppo simmetrico, consente di collocarne la produzione negli anni trenta del XVIII secolo.
E’ uno dei tessuti operati più complessi dell’intera collezione della Fondazione Collegio San Carlo. Con ogni probabilità fu donato alla chiesa, o acquistato come usato dai padri della Congregazione: non poteva che essere nato per un uso profano e destinato al guardaroba dell’alta nobiltà.
Del resto la quantità e qualità delle maestranze coinvolte per la sua realizzazione ne definiscono la sfera di possibili acquirenti. Se si considera il solo lavoro al telaio svolto all’interno della manifattura, per uno sviluppo di trama di 40-50 cm poteva essere necessario un mese di lavoro, cui va sommato il tempo occorso per la preparazione del materiale, dai filatoi di seta ai battiloro. Se per una robe à la française, la foggia d’abito femminile in auge nelle corti nei decenni a metà del Settecento, erano necessari metri di stoffa, e se, pur senza arrivare agli eccessi della corte francese, anche nelle corti minori come quella modenese non era consigliabile per una nobildonna un guardaroba ridotto, si definiscono per le casate nobiliari di alto lignaggio i contorni di un vero e proprio investimento che aveva implicazioni economiche e sociali di enorme rilievo.
Benché di colore differente e privo della broccatura che caratterizza il tessuto in mostra, un esempio di questo disegno non così largamente diffuso si può rilevare in una robe volante, un abito femminile di manifattura francese conservato al MET, datato intorno al 1730, nel quale si evidenzia questa stessa sovrapposizione di motivi naturalistici di piccolo formato poggianti su una tramatura di fondo di pizzo a struttura simmetrica.
2 – LA SETA BIZARRE
TRA FIORI, PIZZI E CHINOISERIE

L’oggetto: il velo da calice
Il velo da calice è un quadrato di circa 50-60 cm. di lato, confezionato con la stessa stoffa e dello stesso colore dei paramenti del giorno, usato per coprire il calice e la patena durante la celebrazione eucaristica fino al momento dell’offertorio e dopo la comunione. Introdotto dopo il Concilio di Trento, fu normato da San Carlo Borromeo nelle Instructionum Fabricae et Supellectilis ecclesiasticae.
Talvolta, come in questo caso, è l’oggetto nel quale si può leggere meglio lo sviluppo del tessuto: spesso le pianete e gli altri paramenti sono composti da strisce di tessuto più strette e poi unite fra loro con cuciture coperte dalla passamaneria.

Il disegno: il gusto bizarre
La lavorazione è complessa: sopra un damasco classico in seta color avorio si intreccia un disegno broccato a più trame fermate in diagonale dai fili di ordito del raso. Si riconoscono rami sinuosi fioriti con giunchiglie e tulipani, intrecciati fra loro e intercalati da grandi motivi triangolari di fantasia con piccoli motivi geometrici.
Il disegno di questo tessuto, nel quale sono associati elementi fitomorfi e forme astratte, è detto bizarre. In questo caso la presenza di una sorta di pizzo di fantasia a sviluppo non continuo consente una datazione specifica, intorno al 1710-1720. La fase bizarre anticipa, se pur di poco, e in parte corre parallela all’esplosione del gusto naturalistico che connota la produzione manifatturiera intorno alla metà degli anni Trenta del Settecento, trainata dai disegni di grandissimo successo del tessitore Jean Revel: si veda il tessuto n. 5 in mostra.

Siamo in presenza di una evoluzione della decorazione a fiori sparsi che caratterizza il tessuto blu n. 6, tardo seicentesco. Rispetto a quest’ultimo vengono qui mantenute e accentuate l’asimmetria e lo sviluppo sinuoso del disegno, caratteristiche che si ritrovano anche nella produzione artigianale, nelle decorazioni e nell’arredo di buona parte del XVIII secolo.
Nella collezione dell’Albergo dei Poveri di Genova si trova una pianeta composta con un tessuto a motivi molto simili: è identico il gusto per i racemi fioriti in alternanza con lo sviluppo asimmetrico delle forme geometriche.
Non era estraneo a questa moda anche l’inserimento di elementi esotici richiamanti illustrazioni e oggetti provenienti dai traffici commerciali con l’oriente. Una robe à la française conservata al LACMA Museum di Amsterdam, più tarda (datata fra 1740 e 1760), realizzata con una abbondante metratura di stoffa con motivi di evidente ispirazione esotica, può fornire un’idea di come doveva presentarsi lo sviluppo del disegno nell’intera pezza da cui fu ricavata la stoffa per questo paramento. La preziosità di questo tessuto, come della maggior parte dei tessuti in mostra, ha portato gli artigiani che ne hanno realizzato la riduzione in paramenti liturgici ad utilizzare ogni frammento disponibile, scelta evidente nella stola e nel manipolo ottenuti con più ritagli anche di piccolo formato.
3 – IL SAMICE
O TELETTA D’ORO O D’ARGENTO

La veste sacerdotale: il piviale
Detto anche impropriamente “cappa” il piviale prende il suo nome dal mantello “pluviale”, da pioggia. E’ una sopravveste ampia, spesso a semicerchio, fermata sul davanti da un passante e completata sulle spalle da un cappuccio.
Nel tempo il cappuccio si è andato astraendo e standardizzando nelle forme, fino a divenire un rinforzo di stoffa applicato sul dorso e spesso riccamente ornato.
Il tessuto: il samice dorato
Nella tradizione tessile europea il samice dorato appartiene ad un gruppo di stoffe chiamate tecnicamente “telette d’oro e d’argento”.
Prodotte dal secolo XV fino al secolo XIX, sono caratterizzate da un’armatura in taffetas o sue varianti accompagnata da fili in oro o argento laminato sovrapposti su ogni trama sempre legati in taffetas. La relativa semplicità è data proprio dalla base: il taffetas è l’armatura 1:1 che prende questo nome quando è tessuta in seta.
Nel corso del Settecento queste telette subirono variazioni tecniche particolari, come nel caso del tessuto in mostra, operato per effetto di una trama liseré in semplice seta senza lamina d’oro di accompagnamento. Questa complessità di esecuzione lo distacca dalla categoria dei tessuti semplici per inquadrarlo nei tessuti operati. Stilisticamente il disegno riprende l’antica tipologia decorativa delle “maglie ogivali” di grandi dimensioni, la cui origine si può individuare nel XVI secolo e che, come vedremo nel caso del tessuto n. 8, venne più volte ripresa nel corso dei secoli, specialmente per uso liturgico.
Uno degli esempi di teletta dorata damascata è reperibile nel ritratto di Francesca Maria di Borbone, opera di Alexandre-François Caminade. Figlia naturale di Luigi XIV di Francia, nel 1692 sposò il reggente di Francia Filippo II d’Orléans e la sua storia si intreccia, per via di discendenza, con la storia di Modena: una delle figlie della coppia, Carlotta Aglae, nata nel 1700, sposerà Francesco III d’Este.


Nella pala raffigurante l’ Estasi di San Filippo Neri con i Santi Girolamo, Gregorio Magno e Dionigi l’aeropagita, del 1765, conservata nel terzo altare a sinistra della chiesa di San Carlo adiacente a questo palazzo, Francesco Vellani vestì proprio San Filippo con una pianeta in teletta d’oro a decorazioni damascate non dissimili, ad ulteriore riprova del successo di queste manifatture e del loro impiego in celebrazioni o eventi solenni.
4- IL VELLUTO BLU
CON PIZZO D’ORO

Con questa stoffa è stato confezionato un paramento liturgico in terzo – pianeta, dalmatica o tunicella, stola, manipolo, velo da calice e una borsa di corporale.
La dalmatica
La dalmatica è una tunica a mezza gamba e maniche a tre quarti e ampie, indossata oggi dai diaconi e dai vescovi in occasioni speciali. Può essere di vari colori a seconda del tempo liturgico.
Nata, o estesamente usata, come capo d’abbigliamento di pregio in Dalmazia, dal II secolo d.C. si diffuse nel territorio dell’Impero romano fino a divenire, con poche varianti, la veste caratteristica degli imperatori romani d’Oriente.
Nell’iconografia sacra vestono la dalmatica i diaconi dei primi secoli fra i quali si riconoscono Santo Stefano, solitamente accompagnato dalle pietre con le quali fu lapidato, e San Lorenzo al quale è normalmente associata una graticola, strumento del suo martirio.
La provenienza: il tessuto ducale
Il tessuto per un paramento così prezioso non poteva essere commissionato dalla Sagrestia, della quale si conservano i conti e che aveva il compito di gestire la chiesa, ma fu ordinato da una duchessa estense per la chiesa di San Carlo o, più probabilmente, ricavato da un pezzo esclusivo del guardaroba della medesima duchessa. Non era infrequente che capi d’abbigliamento di altissima qualità, per i quali venivano impiegate metrature importanti di tessuto, venissero donati o lasciati alle chiese perché ne facessero paramenti liturgici.
Stendhal, “Il Rosso e il Nero”
Si sperava molto dalla vecchia presidentessa de Rubempré; questa signora, che aveva novant’anni, da almeno settanta conservava i suoi abiti nuziali, confezionati con magnifiche stoffe di Lione ricamate d’oro. << Figuratevi, amico mio – diceva l’abate fermandosi di colpo e spalancando gli occhi – che queste stoffe stanno in piedi da sole, tanto sono cariche d’oro. A Besançon tutti pensano che, grazie al testamento della presidentessa, il tesoro della cattedrale sarà aumentato di oltre dieci pianete, senza contare quattro o cinque piviali per le feste solenni >>
La tecnica: l’oro filato
L’arte dell’oro filato, conosciuta già in Oriente e nota a Fenici, Persiani ed Egizi, viene citata negli scritti di autori antichi e se ne trovano tracce in Virgilio e in Plinio il Vecchio.
Per ottenere il cosiddetto oro filato sono necessari numerosi passaggi che consentono l’operazione di tessitura del metallo. La base di partenza è una lastra, in genere d’argento, che viene battuta e ridotta in successione da Battiloro, Tiraoro e Filaoro – maestranze altamente specializzate – fino a diventare una sottilissima lamina.
In seguito questa subisce il processo di doratura da entrambi i lati o, talvolta, su un lato solo, ed è poi avvolta intorno ad un filo di seta di colore coerente: per l’oro filato si usa il giallo, per l’argento filato si possono usare il bianco o il nero. La quantità di oro usato, la doratura effettuata su una o su entrambe le facce della lamina e, non da ultimo, la frequenza di avvolgimento – ovvero la densità, quante volte viene avvolta la lamina intorno ad una data misura di filo di seta – determinano il peso e naturalmente il costo dell’oro filato. In tessuti più antichi o più preziosi, come in questo caso, si trova talvolta anche l’oro trafilato, costituito da un filo metallico continuo a sezione circolare bagnato nell’oro e piegato seguendo i più vari disegni.
Con l’oro filato nasce la tessitura della rete di base per questo paramento, caratterizzata da un disegno a ventaglietti; una passamaneria ottenuta con un’anima più spessa e girali di oro filato è stata usata per disegnare le infiorescenze e le conchiglie, fissate poi con l’ago all’interno dei ventaglietti della rete di base.


Con questa decorazione si ottengono effetti tridimensionali di grande efficacia il cui disegno si ritrova, ad esempio, nella ricchissima bordura in argento dell’abito di Luise Ulrika di Prussia ritratta da Antoine Pesne nel 1744 o nell’altrettanto sontuoso corpetto argento indossato da Madame Victoire de France e ritratto da Jean-Marc Nattier nel 1748.
- Luigi Brenni, L’arte dei battiloro ed i filati d’oro e d’argento: cenni storico-tecnici, edizione a cura dell’autore, 1930
- https://www.storieparallele.it/filati-metallici/
5 – IL BROCCATO “JEAN REVEL”
E IL TRIONFO DEL NATURALISMO


Il disegno: Jean Revel
Il disegno naturalistico di entrambi i servizi raggiunge qui apici di riconoscibilità e invade, in modo colorato e festoso, un fondo neutro impreziosito da fili d’argento. In entrambi i casi il disegno è libero, con mazzi di fiori e frutti slegati fra loro, e pur nella diversità di soggetto i due tessuti sono strettamente affini per datazione e tecnica.
Queste manifatture sono il risultato dell’evoluzione del gusto per la definizione botanica sviluppato a partire dal 1680 circa e che, fra il 1735 e il 1740, raggiunge il suo apice grazie alle idee del disegnatore e tessitore Jean Revel (il Raffaello del disegno serico, come si trova definito nel sito del Victoria & Albert Museum): espressioni “tarde e grandiose di un fasto barocco eccentrico ma ancora terribilmente seducente” che raggiunge solo nella produzione tessile “il massimo della libertà espressiva” (I. Silvestri).
Per ottenere questo tipo di risultati estremamente naturalistici nello sfumato, nei colori e nella resa tridimensionale la manifattura di Revel usò la tecnica del point rentré: un virtuosismo tecnico che consentiva, grazie a passaggi di trame interconnesse costituite da fili di diverse sfumature dello stesso colore, di ottenere rese pittoriche ad altissima definizione. Questa tecnica era propria delle manifatture lionesi con una qualità imitata, ma mai raggiunta, dai telai veneziani.
Il disegno naturalistico sarà riproposto, con molte varianti, fin oltre la metà del secolo e si contenderà il gusto, le tessiture e il mercato con gli altri disegni tipici dell’epoca, definiti “a meandro”, caratterizzati da delicati nastri e pizzi a sviluppo sinuoso: si veda il tessuto n. 7.
Il contesto sociale: le dame delle corti
Anche in questo caso sono gli abbondanti e preziosissimi abiti delle dame regnanti o delle dame di corte a restituire esempi di uso delle stoffe naturalistiche Jean Revel che, come abbiamo visto, per avere la garanzia della massima qualità possibile dovevano essere commissionate direttamente a Lione.
E’ un broccato Jean Revel a vestire la regina di Francia Marie Leszczyńska, consorte di Luigi XV, nel ritratto che le fece Louis Toqué nel 1740, ed è un tessuto assai simile per sfarzo decorativo e abbondanza a comporre la robe che indossa Elisabetta Farnese nel ritratto che le fece Louis-Michel van Loo nel 1739.
Le stesse stoffe potevano essere riutilizzate anche per oggetti appartenenti all’arredo ecclesiastico ma tagliati in foggia di abito, come le vesti delle statue e in particolare della Madonna.
6 – LE SETE CERULEE
I BROCCATI ANTICHI

L’usura dei tessuti e la pratica dell’inserto
Di disegno elegante e leggero, il tessuto di sinistra è in damasco di Tours ceruleo; il broccato è realizzato in seta, oro filato su anima di seta gialla e argento riccio su anima di seta bianca.
L’impostazione verticale del disegno è data da un motivo leggero di pizzo verticale e rettilineo che racchiude piccoli garofani e roselline sparsi sul fondo, cui il motivo a damasco conferisce profondità e una illusione di ombra.
Proprio questo sviluppo lineare verticale e la spartizione in bande potrebbero far pensare subito ad una manifattura tardo settecentesca, ma i piccoli garofani non sono concatenati fra loro e il motivo a pizzo è più antico: questi due elementi portano ad anticipare la datazione di questa manifattura alla fine del Seicento.
A differenza dei paramenti visti in precedenza, in questo caso ci troviamo di fronte ad una pianeta rimaneggiata con la sostituzione della parte centrale, occorrenza non così rara soprattutto nei paramenti più antichi o più usati. La stoffa di sostituzione, a destra, è separata dal tessuto principale dal gallone dorato.
La parte centrale delle pianete è la più sottoposta ad usura: quando il sacerdote si siede, o tiene in mano gli oggetti che servono per la celebrazione, i fili di seta tendono a lacerarsi e, per non scartare l’intero paramento, si interveniva non di rado sostituendo le parti più compromesse come la fodera, la passamaneria oppure, come in questo caso, il terzo centrale.
Nella pianeta in esame lo stolone centrale, di colore coerente, è in damasco celeste broccato da due trame in oro e argento filato a motivi floreali isolati disposti a scacchiera, anch’essi non connessi fra loro. Proprio il colore così inusuale ha portato alla ricerca di un tessuto non comune: è stata così reperita dai sarti della chiesa di San Carlo una seta di epoca leggermente anteriore.
- AsFSC, 13.16, sessione 19, 22 giugno. Il Segretario del Collegio scrive al Sagrestano del San Carlo, don Antonio Maria Cavazzuti: L’Amministrazione mi ha incaricato di farle presente che vista la di Lei rimostranza 4 corrente relativa al rimonto delle Pianete feriali le quali sono assolutamente sospese, acconsente che per la provvista delle nuove Ella si prevalga della guarnizione delle cinque indicate Bianche, come altresì delli marcati due Pallii. A tale oggetto ha incaricati il Signor Ragionato Camuri, ed il S.r Economo Rubbiani di levare formalmente dall’Inventario della Sagristia i capi suddetti”
Il colore: uso e significato del blu
Questo paramento è di un colore liturgico raro, indossato a discrezione in occasione delle celebrazioni in onore della Beata Vergine e, talvolta, in occasione dell’Ascensione. Si parla in questo caso più propriamente di azzurro o ceruleo poiché alcuni blu profondi, ricavati sovente da stoffe nate per essere usate in contesti profani, potevano essere intesi di volta in volta come neri o come viola, colori usati tradizionalmente in altri momenti ben definiti dell’anno liturgico o nel rito delle esequie.
L’uso dei colori per la liturgia è disciplinato dall’ordinamento generale del messale romano cattolico; l’uso del colore azzurro per le celebrazioni della Vergine è stato mantenuto anche nelle vesti sacerdotali della chiesa ortodossa.
Di diversa origine l’uso dell’azzurro in contesti pittorici particolarmente qualificati: se ne veda un esempio nelle vesti dei diaconi e del Papa nel ciclo dedicato ai protomartiri Santo Stefano e San Lorenzo, dipinto dal Beato Angelico nella Cappella Niccolina in Vaticano. Il ciclo è databile fra il 1447 e il 1448 e fu voluto da Niccolò V: a questo pontefice viene associato, nella tradizione storiografica, l’onere di guidare la ripresa dell’immagine del papato dopo il lungo periodo avignonese.
Tuttavia l’uso dell’azzurro, in questo caso, può valere come indicazione, segnale non scritto di una ritrovata potenza. Questo pigmento deriva dalla lavorazione dei lapislazzuli, pietra semipreziosa che veniva dalle terre del Medio Oriente – da cui il nome di blu oltremare – caratterizzata dalla qualità superiore rispetto all’azzurrite che si poteva estrarre anche da cave sarde o toscane, ma anche da un costo notevole al punto da determinare, a lungo, una voce di spesa a parte nei contratti con i pittori.

Per l’epoca l’uso esteso di oltremare anche laddove non era dettato da necessità narrative, come nel ciclo della Cappella Niccolina, poteva dunque valere come indicazione di disponibilità economica e aveva, di conseguenza, un peso sociale non indifferente.
Di natura ancora differente è invece l’indaco di estrazione vegetale, perlopiù ricavato da due piante, l’Isatis Tinctoria o guado, autoctona, e l’Indigofera Tinctoria, proveniente dall’Asia centrale e orientale. Sono questi i pigmenti usati per tingere le stoffe e tessuti, comprese con ogni probabilità le sete in mostra, e, talvolta, potevano essere usati in pittura ma non negli affreschi. In quest’ultimo caso infatti il particolare processo di fissaggio mediante trasformazione chimica, chiamato carbonatazione, richiede l’impiego di pigmenti più stabili, derivanti da terre o dalla macinazione di minerali.
7 – LA SETA ROSA SALMONE
A MEANDRI DI PIZZO

La tecnica: il broccato
Il broccato, di cui si è già visto un esempio nel tessuto n. 2, si ottiene aggiungendo trame al tessuto di fondo e si lavora su telaio a rovescio perché i fili che costituiscono le trame aggiuntive, di colore diverso rispetto al filo di fondo, vengono annodati e tagliati ai margini della propria area di colore all’interno del disegno. Questo accorgimento permette alla stoffa di non raggiungere un peso e uno spessore eccessivi, soprattutto in aree dove i colori sono numerosi e comporterebbero una notevole quantità di filo inutilizzato passante a rovescio, ma anche di risparmiare il filo stesso, sovente in seta. Un modo alternativo per ottenere gli stessi effetti è dato dal ricamo ad ago.

La fonte storica: le dame di Versailles
Come si è già visto negli esempi precedenti, in pieno Settecento la Francia dettava legge in numerosi ambiti della cultura e della produzione artistica; le manifatture tessili non facevano eccezione. La grande disponibilità economica e le leggi non scritte imperanti nel lungo regno di Luigi XV (1722-1771), nonché il gusto e le esigenze delle diverse favorite, imposero continue trasformazioni e guidarono i disegnatori e le grandi case produttrici.
Il disegno “a meandri”, variante asimmetrica del disegno di gusto naturalistico esploso nel decennio 1730-1740 (si vedano i tessuti n. 5 e 5 a), imperò in Francia a partire dal 1740 circa e rimase in auge almeno fino al 1770. Il motivo caratteristico delle linee verticali e sinuose, formate da rami fioriti o da semplici motivi floreali, subì attraverso gli anni numerose trasformazioni scalabili cronologicamente con precisione. Il tessuto con cui sono stati composti i paramenti del San Carlo è collocabile in una fase già avanzata dell’elaborazione dei meandri riconoscibile proprio per l’introduzione, unitamente ai rami fioriti, del motivo “a pizzo” unito e continuo, che contribuisce a delineare con chiarezza geometrica lo sviluppo in teorie parallele e regolari.
Anche in questo caso i ritratti delle dame di corte, come i ritratti di famiglia o i dipinti corali che riproducono gli eventi salienti dell’alta nobiltà europea, aiutano nella ricostruzione dell’epoca e del contesto nel quale furono fabbricate e utilizzate le manifatture, in modo non dissimile da quanto avviene per la datazione degli oggetti d’uso quotidiano. La corrispondenza quasi esatta fra la stoffa del paramento in esame e la robe à la francaise della dama di corte ritratta di spalle in questo dipinto di Baron Jolly, realizzato intorno alla metà del XIX secolo ma riproducente l’incontro di Benjamin Franklin con Luigi XVI e Maria Antonietta avvenuto a Versailles nel 1778, aiuta nella datazione precisa della stoffa.
L’abito in questione, d’altra parte, è di taglio identico ad almeno due vesti di manifattura franceseoggi conservate al MET di New York, entrambe databili fra il 1750 e il 1775.
Non era inusuale trovare anche gilet e panciotti da uomo ricavati da stoffe simili alle manifatture usate per le vesti femminili: venivano privilegiati i disegni più minuti fra i quali proprio le sete con motivo a meandri o piccoli bouquet.
8 – I TESSUTI MODERNI
A TELAIO MECCANICO


La tecnica: il lampasso
Il piviale bianco è in seta damascata e lampasso. Il disegno, chiaro e simmetrico, è ben riconoscibile nel suo sviluppo a maglie romboidali lobate ornate da foglie e fiori all’interno delle quali trovano posto bouquet floreali.
Dal punto di vista tecnico il disegno che emerge dal damasco di fondo è ottenuto con una tecnica diversa rispetto al broccato visto fino ad ora.
Il lampasso è un tessuto operato di grande pregio, noto fino dal X secolo, di origine incerta. E’ ottenuto con due sistemi di ordito e almeno due serie di trame: la prima serie di ordito e trama forma l’intreccio di fondo, la seconda viene usata per creare il disegno, spesso impreziosito con fili metallici.

Il disegno: il revival di fine Ottocento
Come nell’architettura, negli arredi o finanche in pittura, anche nella manifattura nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento si assiste ad una ripresa di motivi dei secoli precedenti.
Abbandonata in ogni campo delle arti “minori” l’asimmetria che aveva caratterizzato molti campi della produzione artigianale del Settecento, come si è visto negli esempi precedenti, e superata la fase neoclassica, dalla metà del XIX secolo vengono riproposti tessuti che richiamano le infiorescenze di grandi dimensioni e l’impostazione simmetrica di età barocca.
Talvolta, tuttavia, si trovano anche memorie di disegni più antichi, caratterizzati da motivi fitomorfi che campeggiano in aree definite da reticoli anch’essi di forme ispirate alla natura.
Ancora una volta la fonte per una datazione è data dalle testimonianze pittoriche. E’ possibile reperire una delle sorgenti di ispirazione per questo disegno a rete nell’abito sontuoso con cui Paolo Veronese veste l’allegoria di Venezia in trono onorata dalla giustizia e la Pace, una delle tele incastonate nel soffitto della Sala del Collegio nel Palazzo Ducale di Venezia (1575-1577).

Il tessuto ecclesiastico
Nel tardo Ottocento i tessuti con i quali vengono confezionati gli abiti talari sono sempre più spesso di commissione ecclesiastica, grazie all’introduzione dei telai meccanici che abbattono i costi di produzione dei damaschi e dei velluti. Così anche questa pianeta viola a decorazioni gialle reca, nel tripudio decorativo interamente composto da elementi vegetali, simboli pienamente riconoscibili legati all’Eucarestia: si leggono le spighe di grano, i tralci di vite e i grappoli d’uva.
Una variante della infiorescenza presente in questo tessuto è dato dalla ripresa del motivo a melagrane stilizzate, la cui origine può essere ricercata in manifatture più antiche come testimoniato da un frammento della veste funeraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, già signore di Rimini, databile agli anni sessanta del Quattrocento e oggi conservata nei depositi del Museo Diocesano di Rimini.
Tuttavia il motivo della melagrana, simbolo di fertilità, era già presente nelle decorazioni di matrice arabo-persiana giunte in Occidente e utilizzate fin dal tardo Trecento, sempre inserita in un graticcio di contorno il cui disegno, inizialmente essenziale, si fa via via più ricco.
In ambito cristiano la simbologia della melagrana non venne ripresa unicamente come elemento decorativo ma divenne uno dei motivi ricorrenti nell’iconografia cristologica come simbolo, memoria o prefigurazione del sacrificio, ma sempre fertile, un carattere ricordato dall’abbondanza di semi di cui è costituito l’interno del frutto.


9 – I TESSUTI RICAMATI
DISEGNARE CON L’AGO



La tecnica: il ricamo
Il ricamo (dall’arabo raqm, segno o disegno) consente una libertà espressiva impensabile al telaio anche per gli artigiani di raffinatissima specializzazione di cui abbiamo visto qualche esempio, perché la struttura modulare permette al tessitore unicamente la reiterazione di motivi sempre uguali.
Il ricamo di forma ovale recante il ritratto di San Carlo Borromeo in preghiera, entro un ovale circondato da passamaneria a filo dorato, è stato applicato allo stolone centrale di una pianeta. L’intera miniatura è ottenuta con due tecniche di ricamo differenti, un punto ombreggiato per il fondo e un punto pieno per le parti che necessitavano di maggior dettagli come il volto, le mani e il Crocifisso, ed è databile fra il 1750 e il 1780 circa, coerentemente con la datazione del tessuto della pianeta stessa.
Nel corso dell’Ottocento vennero abbandonate, via via, le complesse tecniche che avevano permesso nei secoli precedenti il raggiungimento di apici di virtuosismo. Il ricamo si riduce a punti più essenziali; la grande diffusione di modelli stampati su carta quadrettata intorno agli anni Quaranta del secolo, soprattutto in Germania, incrementa la diffusione della tecnica del punto croce. Più semplice ancora è il ricamo a piccolo punto (la metà di un punto croce) usato per la canestra ricamata sul paliotto. Questo non permette alcuna sfumatura all’interno del singolo punto ma unicamente una variazione ottenuta dal sapiente disegno di aree di colore diverse: una sorta di anticipazione dell’accostamento dei punti colore – dei pixel – degli schermi attuali.
Con l’avvento dei telai per il ricamo meccanico fu possibile tornare alla produzione di ricami dall’effetto pittorico a costi molto più contenuti. Fu lo svizzero Groeble che, alla fine dell’Ottocento, mise a punto un sistema a cartoni forati che integrò la macchina a navette, rendendo così l’intero processo automatizzato: un esempio di questa produzione sono le figure pienamente Liberty ricamate sullo stolone di questa pianeta in velluto viola.
L’arredo sacro: il paliotto
Il paliotto è il frontale dell’altare. Può essere di materiali diversi, fisso o mobile a seconda dei luoghi e delle occasioni.
I più preziosi sono ottenuti con commessi di marmo, come si può vedere nella chiesa di San Carlo. Tuttavia in area emiliana, a causa della difficoltà di reperimento dei marmi e degli alti costi di trasporto dalle cave venete o toscane, furono sviluppate soluzioni decorative alternative con esiti di straordinaria qualità: nella zona di Carpi nacque così una scuola di artigiani specializzati nella produzione di paliotti in scagliola ornati “a pizzo”, o con motivi paesaggistici e naturali, quale il più antico paliotto oggi alla base dello scalone d’onore del Collegio San Carlo, risalente al XVII secolo.
Più semplici, e intercambiabili, sono i paliotti in tessuto: nei depositi della Fondazione si conservano alcuni frontali costituiti da grandi pezze di damasco di seta a vari colori, oppure di canapa decorata, montate su telai in legno. Questi pannelli venivano appoggiati all’altare in occasione di alcune celebrazioni.


Esistono tuttavia anche casi particolari di paliotti derivati da sete o scialli di provenienza profana, anche se più rari.
In collezione è presente anche un caso singolare, con il quale abbiamo aperto questo capitolo: un paliotto ricamato a mano come ex voto. E’ opera di una fedele della Congregazione della B. Vergine Auxilium Christianorum, Giulia Martignoni Menafoglio, che nel 1837 donò questo suo paziente lavoro e altri due riquadri più piccoli, sempre ricamati a mano, a ringraziamento per essere stata preservata dal colera del 1836.

- Marta Cuoghi Costantini, Iolanda Silvestri (a cura di), Il filo della storia. Tessuti antichi in Emilia- Romagna, 2005
- Lidia Righi Guerzoni, Iolanda Silvestri, L’arredo. Gli argenti, i tessuti, i mobili, in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo a Modena, a cura di D. Benati e L. Peruzzi, 1991, pp. 214-231.
- Attiliana Argentieri Zanetti, Dizionario tecnico della tessitura, Centro di catalogazione e restauro dei beni culturali del Friuli-Venezia Giulia, Villa Manin di Passariano – Udine, 1987
- Pietro Pinchetti, Manuale del compositore di tessuti. Guida alla formazione delle armature per ogni specie di stoffe, 1910
- Carlo Quaglierini, Manuale di Merceologia tessile, 1992
- Alessandro Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, 2002
Per ciascun tessuto si rimanda alla schedatura propria e ai link di approfondimento su https://patrimoniodigitale.fondazionesancarlo.it/