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In cammino. Viaggi, reliquie e mostri

Nella nutrita schiera dei viaggiatori medievali dell’Occidente cristiano, meno esigua di quanto una storiografia datata ci ha portato a lungo a pensare, si distinguono alcune categorie di persone mosse da necessità o volontà differenti.

C’è chi viaggia per lavoro: mercanti, soldati, marinai, talvolta artisti, artigiani, ambasciatori e politici. C’è chi tesse e mantiene le reti del potente mondo dei monasteri, soprattutto nei secoli a cavallo dell’anno Mille, con il progressivo affermarsi dell’influenza benedettina cluniacense. Ancora, c’è chi viaggia mosso dalla fede e anche da un poco di spirito d’avventura. Fra queste categorie si collocano coloro che sono l’uno e l’altro: ad esempio i crociati.

Piero della Francesca, Adorazione del legno della Croce e incontro fra Salomone e la Regina di Saba, 1452 ca., Arezzo, San Francesco

1. Vedere, toccare, venerare

I resti materiali e le tombe degli eroi, siano essi pagani o cristiani, e i pellegrinaggi ad essi associati hanno un’origine molto lontana nel tempo. Sappiamo infatti dalle fonti e dai ritrovamenti archeologici che già dall’VIII secolo a.C. ci sono luoghi di culto dove si ritiene siano sepolti i resti dei mitici eroi greci, protagonisti delle vicende del ciclo omerico. 

Durante il secolare periodo di diffusione del cristianesimo e la sua complessa ascesa a scapito del paganesimo greco-romano, la Chiesa sostituisce gli eroi dell’epica greca con i santi e, soprattutto, con i primi martiri cristiani. All’inizio i resti di questi uomini e donne – collocati in edifici detti martyria – servono essenzialmente per avvicinare i fedeli attraverso il ricordo di chi, per difendere i propri ideali e la propria fede, ha pagato con la vita.

Nasce così e si alimenta nel tempo quel fenomeno che Lucetta Scaraffìa definisce “potenza del Sacro”: i corpi dei santi venerati dalla Chiesa Cattolica, ormai privi di vita, mantengono quella “forza magica” della virtus che proviene dalla vicinanza con Dio dopo la propria morte. In questo modo i santi e i martiri, o per meglio dire le loro spoglie mortali, assumono nella tradizione e nel sentire cristiano per lunghissimo tempo vere e proprie proprietà magiche e al solo contatto con i fedeli si prega e si spera che siano capaci di guarire, proteggere e consolare da ogni male. 

Poiché i molti fattori che concorrono a limitare notevolmente l’aspettativa di vita spesso non sono controllabili, soprattutto nei secoli prima dell’anno Mille e prima della diffusione, in alcuni territori, delle conoscenze mediche della scuola araba, la necessità di avere un sollievo contribuisce ad alimentare la speranza che le reliquie – e il potere divino ad esse connesso – siano in grado di superare i limiti dell’intervento umano, chiamando in causa l’intervento divino. In questa ottica, il pellegrinaggio serve dunque per dimostrare la propria fede a Dio e per favorire l’intercessione dei santi presso di lui: si viaggia spesso per ottenere una grazia, o per sciogliere un voto.

  • Anna Benvenuti (et al.), Storia della santità nel cristianesimo occidentale, 2005. Il culto dei santi fin dai primi secoli del cristianesimo ha rivestito un ruolo centrale dal punto di vista non solo religioso, ma anche sociale, politico e culturale. Se nel periodo delle origini si trattò di un fenomeno esteso all’intera area del Mediterraneo, a partire dal Medioevo ha acquisito in Occidente caratteristiche sempre più specifiche, destinate ad accentuarsi nel mondo cattolico dopo la Riforma protestante e il Concilio di Trento.
  • Roberto Lavarini, Il pellegrinaggio cristiano, 1997
Roma, mausoleo di San Costanza – Fondazione Collegio San Carlo, inv. 3351, part., 1916 ca.

Ci sono, fin dall’antichità, forme di culto particolari che non hanno per oggetto la divinità ma gli uomini che hanno vissuto determinate esperienze di vita e che, una volta morti, vengono sacralizzati.

Per il mondo antico una delle fonti più esplicite in materia è Erodoto. Il suo racconto delle grandi battaglie che spezzano il tentativo di espansione persiana in Occidente è tessuto connettendo più piani: pur raccontando gli eventi Erodoto narra anche della presenza sia della divinità, sia degli eroi, accanto ai guerrieri. La distinzione fra dèi ed eroi è chiara per tutti i colori che ascoltano le parole di Temistocle così come ci vengono riportate, ma entrambe queste figure protettrici possono parimenti intervenire nella realtà. Gli eroi sono uomini di generazioni precedenti a quella vivente, per la maggior parte appartenenti ad una stagione favolosa che è ormai mito.

Il mondo degli eroi gode però di una potenzialità che al mondo degli dei è negata, perché connesso ad un evento che si ripete senza rimedio per ogni generazione umana: la morte. Diventa eroe chi ha attraversato alcune prove che vengono generalmente riconosciute come tali, ma ciò che lo consacra è la sua inclusione nel mito: chi è nominato nei racconti mitologici può essere venerato come eroe. Purché ci sia la tomba. Questo connette gli eroi alla categoria dei morti, con il suo culto e le sue pratiche rituali e sacrificali.

Il monoteismo cristiano differenzia il culto dei propri “eroi” da quello degli eroi pagani, pur assumendo la stessa concezione di innalzamento di un essere mortale a figura degna di culto. La concezione del divino ha immediato riflesso nella concezione dell’umano: il rapporto con il divino – la Grazia, l’intervento diretto di Dio nella sua manifestazione spirituale – è così potente in alcuni uomini da elevarli ad un livello che ne giustificherà, post mortem, la venerazione. Ciò che si venera nel santo è il divino che è in lui. I martiri, in particolare, diventano santi sacrificando la propria vita per il proprio credo e in questo possono essere assimilati, secondo Momigliano, ai filosofi antichi che preferivano la morte alla sottomissione all’autorità tirannica dell’imperatore: il martire è l’uomo libero, colui che sacrifica la vita in nome di un ideale.

Glauco Maria Cantarella (Professore di Storia medievale – Università di Bologna), Il potere delle reliquie – La presenza del sacro intorno all’anno Mille, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 27 Novembre 2018

Perché Boccaccio – come altri suoi contemporanei – è ironico nei confronti delle reliquie? Lo storico Glauco Maria Cantarella parte da questa domanda per approfondire il ruolo delle reliquie nel Medioevo. Nel suo De pignoribus sanctorum Guiberto, abate di Nogent, osserva che con tutto il presunto legno della Croce si potrebbe costruire una nave. Guiberto, che fu discepolo di Anselmo d’Aosta, scrive entro il 1125 e non è un Voltaire ante litteram: ciò che dice è nel segno della razionalità e talvolta usa la satira per raggiungere il paradosso, spostando al limite le sue affermazioni per renderne più evidente il significato.

Per la tradizione medievale è normale che San Giacomo il Maggiore abbia due teste – la prima ritrovata insieme al corpo in Spagna, la seconda giunta da Gerusalemme – e le stesse fonti non correggono questa apparente contraddizione. L’ironia, la critica di Guiberto rimane sferzante nel nome della ricerca di autenticità, di smascheramento delle contraffazioni intorno alla questione estremamente seria, e meritevole di rispetto, dei resti dei corpi dei santi. Le reliquie vengono trattate nelle scritture dell’epoca come oggetti che hanno una loro volontà: chiedono rispetto e quando non viene loro accordato le reliquie agiscono da sole. È la volontà del santo: i santi proteggono, o condannano, e il potere che esercitano attraverso le reliquie è grande. Sacralizzano un luogo, ad esempio, e le promesse e i giuramenti fatti all’interno del recinto sacralizzato hanno un peso speciale per chi li pronuncia. Da ciò dipende il fatto che il “furto sacro” – ad esempio quello effettuato dai baresi con San Nicola, o dai veneziani con San Marco – sia ammesso. Sono i santi stessi a concedere lo spostamento delle loro spoglie mortali.

reliquiario dei santi martiri Severo e Urbano, Fondazione Collegio San Carlo, inv. 4079, con autentica

1.1 L'”affaire” delle reliquie

Nel corso dei secoli, moltissimi sono i casi di falsificazione delle reliquie. Talvolta, gli stessi agiografi hanno raccontato di figure che in realtà non sono mai esistite e hanno arricchito di particolari inventati le vite di santi dei quali è attestata l’esistenza. In questi casi, non si trattava tanto di una presunta malafede intenzionale degli autori medievali, quanto piuttosto del fatto che l’importanza delle fonti storiche per la ricostruzione di un determinato evento è un aspetto relativamente recente. Nel Medioevo a nessuno interessava la citazione delle fonti o la verifica puntuale di esse. Ciò che più importava era offrire un racconto convincente, interessante, ricco di particolari affascinanti sul santo di turno, in modo da aumentarne la popolarità e accrescere l’affluenza dei devoti al santuario che ne custodiva i resti. 

Il commercio delle reliquie – detto simonia e considerato da subito un peccato – è divenuto fertilissimo a partire già dal II-III sec. d.C., ed è arrivato fino all’epoca moderna, dove tutt’oggi alcune di esse sono venerate da ingenti masse di fedeli. Pensiamo al sangue di San Gennaro a Napoli, alla Sacra Sindone a Torino, alle numerosissime spine della corona messa in capo a Gesù (circa 160 chiese in Italia ne vantano almeno una), alle centinaia di braccia di San Biagio, alle frecce di San Sebastiano, o ai celebri resti di San Giacomo nella località di Santiago de Compostela. 

In passato sono esistite anche figure alquanto curiose, come i cercatori di reliquie. Lo storico dell’età moderna Gianvittorio Signorotto ha indagato la vita di uno di essi, il mercante milanese Giovanni Giacomo Castoldi, che con il suo “mestiere” contribuisce ad “alimentare l’offerta di beni religiosi che anima la geografia sacra dell’età della Controriforma” (p. 404).  

Il grande storico irlandese Peter Brown ha rifiutato la tesi secondo cui il culto dei santi – promosso dai vescovi del V e VI secolo, non soltanto a vantaggio delle forme di devozione popolare – avrebbe semplicemente sostituito quello degli eroi pagani. Secondo la sua interpretazione, nuove forme di potere temporale sono sorte attorno alle pratiche di venerazione delle spoglie mortali di questi uomini e donne di Dio: 

Anche il Collegio San Carlo nel tempo si è munito di una propria collezione di reliquie, utilizzate in vari momenti dell’anno liturgico. Per le reliquie era stato aperto una sorta di deambulatorio che correva dietro l’altare del Crocifisso.

Fra le reliquie conservate, per alcune delle quali è ancora possibile consultare le autentiche, ossia i documenti firmati dal vescovo della diocesi che ne attestano l’autenticità, vi sono quelle di San Francesco e Santa Chiara, San Francesco Saverio, San Geminiano, San Filippo Neri, San Luigi Gonzaga. Nel caso del collegio, l’importanza della ritualità legata alle reliquie comincia a declinare soltanto verso la fine del XIX secolo. 

Nicolaus, San Giorgio e il drago, XII secolo, Ferrara, Duomo – Fondazione Collegio San Carlo, inv. 3391, part., 1916 ca.

2. Le vie e le mete

I pellegrini di fede cristiana percorrono le strade dell’Europa e del vicino Oriente a partire dalla tarda antichità, con un movimento ininterrotto che giunge fino ai nostri giorni e che ha conosciuto fasi alterne. Nei primi secoli del cristianesimo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente aveva portato ad una stagione di instabilità che aveva contribuito a scoraggiare i più rispetto all’idea di mettersi in cammino.

Abbiamo tuttavia testimonianza di chi, perfino in questi secoli di riassetto politico dell’Europa occidentale, mantiene saldo il proprio proposito. Chi parte nei primi secoli dell’ Alto Medioevo lo fa, perlopiù, evitando le esplorazioni avventurose e si dirige verso mete designate e certe, divenute centrali nella geografia della cristianità: Roma, Santiago de Compostela, Gerusalemme.

Questi luoghi sono le mete finali di lunghi sentieri che oggi godono di una seconda stagione di grande popolarità: si pensi, come esempio, al Cammino di Santiago o alla Via Francigena. Le principali tappe intermedie di questi lunghissimi cammini sono caratterizzate, fin dai secoli dell’Alto Medioevo, dalla presenza di luoghi di ristoro non di rado corrispondenti a monasteri o presidi ecclesiastici, anche esterni a qualunque centro abitato.

Lucetta Scaraffia (professoressa di storia contemporanea – Università “La Sapienza” di Roma), In cammino. I luoghi di culto e i pellegrinaggi cristiani, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 5 novembre 2021
Lucetta Scaraffia (professoressa di storia contemporanea – Università “La Sapienza” di Roma), Giubilei e pellegrinaggi nel cristianesimo, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 22 novembre 2016
  • Marco Zappella (a cura di), Le origini degli anni giubilari: dalle tavolette in cuneiforme dei sumeri ai manoscritti arabi del Mille dopo Cristo, 1998
  • Roberto Rusconi, I papi e l’Anno santo, 2015 – A partire dal 1300 i papi hanno periodicamente indetto un “anno santo” nel quale, a quanti si fossero recati in pellegrinaggio a Roma, ne avessero visitato le basiliche e si fossero confessati e comunicati, era concessa l’indulgenza plenaria, vale a dire la remissione della pena da espiare per i peccati commessi.
  • Giovanni Filoramo, Il Giubileo nella storia del cristianesimo, in “Filosofia e teologia: rivista quadrimestrale”, a. 29 (2015), n. 3, pp. 507-519
  • Lucetta Scaraffia, Le porte del cielo. I giubilei e la misericordia, 2015
  • Lucetta Scaraffia, Il giubileo: una storia, 2015
  • Giovanni Miccoli, Anno Santo: un’invenzione spettacolare, 2015 – Il volume non è né vuole essere una storia degli anni santi. Si propone piuttosto di cercare di capire come si colloca, in una tradizione secolare e all’interno delle “novità” introdotte attualmente nella pratica del ministero papale, l’indizione giubilare di Francesco: la scelta di uno strumento collaudato e tradizionale come atto di un pontefice per tanti aspetti non tradizionale. I caratteri dell’Anno Santo infatti, quali si articolano nei settecento e più anni della sua esistenza, sono fortemente marcati, in una sorta di unità ripetitiva, anche se non priva di variazioni marginali e di differenze.

2.1 Il corpo del santo come pietra miliare

I luoghi di pellegrinaggio sono designati in base alla presenza delle reliquie dei santi più importanti, o di frammenti ad essi legati.

Roma diventa una delle mete di maggior richiamo anche in ottica cristiana a partire dal IV secolo. E’ in questo tempo che la madre di Costantino il Grande, l’imperatrice Flavia Giulia Elena (248 ca.-329), riconosciuta dalla Chiesa e celebrata come Sant’Elena, nel corso di un viaggio nelle terre orientali dell’Impero e in Palestina ripercorre i luoghi della vita di Cristo e ritrova, sul Golgota, frammenti di legni dei crocifissi usati per l’esecuzione dei condannati a morte.

Riportati in Roma, i frammenti del presunto legno della vera croce e altre reliquie che, secondo la tradizione, ritrova sempre sul Calvario diventano centrali all’interno di un tessuto cittadino caratterizzato da luoghi e resti di numerosi santi, primo fra tutti il corpo dell’apostolo Pietro.

Piero della Francesca, ritrovamento della vera Croce, 1452-1466, Arezzo, San Francesco

La città spagnola di Santiago assurge al ruolo di meta centrale in questa geografia qualche secolo più tardi, intorno all’812-814, quando viene ritrovato l’intero corpo di San Giacomo. Il corpo era deposto in un campo chiamato il Campo delle Stelle – da cui Compostela – che in antichità poteva essere stato un villaggio, un cimitero romano o più probabilmente celtico.

Niccolò e Piero Lamberti, Decollazione di San Giacomo, Firenze, Orsanmichele

Il culto liturgico dei martiri mediante la celebrazione eucaristica nasce molto presto.

A causa della morte violenta le figure di uomini e donne che erano stati perseguitati e uccisi a causa della loro fede vengono frequentemente assimilate a Cristo: è questo il motivo che porta i cristiani dei primi secoli a collocare gli altari il più vicino possibile alla tomba del martire, o addirittura a celebrare le funzioni sulle tombe stesse. Nel corso del IV  secolo, con la fine delle persecuzioni, si sviluppa la costruzione di numerose basiliche cimiteriali in onore di questi martiri il cui corpo viene posto sotto l’altare, o dentro di esso.

Quest’idea e questa assimilazione prendono piede in modo così forte da legare indissolubilmente, di qui in poi, la presenza delle reliquie agli altari. Il culto delle reliquie si diffonde così in modo veloce e capillare, al punto da trasformare la geografia delle comunicazioni europee e l’architettura dei luoghi che le ospitano.

Roma, San Paolo fuori le mura, chiostro – Fondazione Collegio San Carlo, inv. 3369, part., 1916 ca.

Egeria (Aetheria), Pellegrinaggio in terra santa, ed. 2000

Una delle più antiche testimonianze di pellegrinaggio è contenuta nell’Itinerarium Egeriae: un’opera scritta con ogni probabilità, secondo le letture più recenti, da una nobildonna variamente indicata come Etheria o Egeria, di origine galiziana. Il periodo raccontato si colloca fra la fine del 383 e i primi mesi dell’anno successivo, ma il viaggio iniziò con ogni probabilità nel 381. È una delle pochissime opere scritte da una donna di età tardo-antica giunte sino a noi ed è, anche, un insperato diario di viaggio: la curiosità porta l’autrice ad annotare molti particolari dei luoghi che visita e delle persone che incontra.

Del diario, muto per secoli, è stata ritrovata nel 1884 ad Arezzo una copia databile all’XI secolo.

Per quanto Egeria si concentri molto sull’esperienza spirituale che questo viaggio le consente di vivere, il suo diario apre squarci anche sui luoghi che visita: rare e preziose cartoline dal vicino Oriente e dall’Egitto della fine del IV sec. d.C.

L’antica Ramesse

8.1 – Dalla città di Arabia, Ramesse dista 4 mila passi e noi, per arrivare alla tappa di Arabia, attraversammo Ramesse; attualmente questa città è una piana disabitata: infatti non vi è più alcuna abitazione. Appare con chiarezza che ebbe una grande estensione e molti edifici, giacché i suoi resti, che sono tutti in rovina, ancora oggi si scorgono a perdita d’occhio. – 8.2 – Ora in quel luogo non vi è null’altro che una enorme pietra di Tebe, in cui sono scolpite due statue grandissime che si dice rappresentino uomini santi, cioè Mosè e Aronne. Si narra infatti che le hanno poste là in loro onore i figli di Israele. – 8.3 – Inoltre vi è un albero di sicomoro, che si dice sia stato piantato dai patriarchi: è molto vecchio e per conseguenza malridotto, e tuttavia porta ancora frutto…

Dalla città d’Arabia a Gerusalemme

9.3 – Da quel luogo [Arabia] congedammo i soldati che ci avevano fatto la scorta in nome dell’autorità romana, fin tanto che avevamo camminato per luoghi insicuri; ma ora non era più necessario incomodare i soldati, poiché la via che attraversa la città di Arabia conducendo dalla Tebaide a Pelusio, è una via pubblica dell’Egitto – 9.4 – Partiti di là facemmo l’intero cammino traversando la terra di Gessen, sempre tra viti che producono vino e viti che producono balsamo, tra frutteti, campi ben coltivati e giardini bellissimi; un cammino compiuto interamente lungo le rive del Nilo, tra poderi molto fertili, che un tempo erano stati luoghi di residenza dei figli di Israele. Che dire di più? Credo di non avere mai visto un paese più bello della terra di Gessen.

2.2 La valigia del viandante

Mettersi in viaggio per ottenere la consolazione divina poteva essere decisamente pericoloso e notevolmente costoso. Chi non poteva organizzare un viaggio scortato sapeva di doversi affidare alla carità dei monasteri e dei molti punti di sosta disseminati lungo i percorsi, senza alcuna garanzia.

Citando la Guida del pellegrino, un testo del XII secolo (libro V del Codex Calixtinus, ripubblicato nel 1989 a cura di Paolo Caucci von Saucken) che si propone di consigliare al meglio colui o colei che vuole intraprendere il pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, si può avere un’idea di quanto si poteva trovare lungo la strada.

Innanzitutto, la strada stessa da percorrere. Per i secoli dell’Alto Medioevo la geografia conosciuta in Occidente è ancora in buona parte costruita sulle informazioni che arrivano dalle Scritture o dal mondo greco-romano: i tre continenti – Europa, Asia e Africa – separati fra loro dal Mediterraneo, dal Nilo e dal Don. Oltre, il fiume Oceano.

Le vie da percorrere erano soggette alle intemperie, al punto che poteva essere difficile rintracciare un sentiero dopo una stagione particolarmente avversa. E’ per questo, ad esempio, che fu innalzata una chiesa a Santo Domingo Garcìa, diventato poi Santo Domingo della Calzada (san Domenico della Strada in italiano), l’uomo che avrebbe disinteressatamente costruito la strada che porta da Najera a Redecilla, in Spagna, rendendola in questo modo chiara, visibile, e facilmente percorribile. Aveva così contribuito non poco alla sicurezza e alla maggiore facilità del percorso in quel tratto e, conseguentemente reso un servizio tutt’altro che irrilevante per la Chiesa cattolica, che lo elevò agli onori degli altari e di conseguenza portò anche il suo luogo di sepoltura, costruito sulla strada da lui consolidata, a divenire esso stesso luogo di visita da parte dei viaggiatori.

monumento funerario di San Domenico, XII secolo – Santo Domingo de la Calzada, Cattedrale.

Le testimonianze che ci giungono dai viaggiatori di qualunque epoca raccontano che era meglio, talvolta era vitale, viaggiare in gruppo.

Nella Legenda Aurea si narra di come, nel 1020 circa, a Tolosa, un padre e un figlio pellegrini tedeschi vengono accusati da un albergatore di aver rubato dalla sua locanda. Convinti della propria innocenza, essi non esitano a farsi controllare la bisaccia nella quale, però, viene trovata una coppa d’argento del locandiere. Non è difficile immaginare che fosse stato il locandiere malintenzionato a mettere di notte la coppa nella bisaccia dei due pellegrini, ma davanti a tali evidenze si decide di impiccare il figlio e confiscare gli averi di entrambi per darli all’albergatore. Il padre riprende quindi il cammino in solitaria ma, sulla strada del ritorno, dopo 36 giorni, scopre che il figlio appeso al patibolo è ancora vivo: secondo la narrazione San Giacomo lo aveva vegliato tutto il tempo. Si provvede quindi a togliere il cappio dal collo del figlio e a impiccare invece il locandiere disonesto.

Il Veneranda dies offre altri esempi di personaggi dai quali bisogna guardarsi: dai falsi confessori che estorcono denari in cambio di penitenze impossibili da compiere, ai cambiavalute, ai mercanti che ritoccano i prezzi per le merci indispensabili ai viandanti lontani da casa.

  • Norbert Ohler, Vita pericolosa dei pellegrini nel Medioevo, pp. 7, 204, passim, con bibliografia. Il pellegrinaggio nel Medioevo è un fenomeno non solo religioso, ma anche culturale, sociale, economico: i pellegrini costruivano strade e ponti, erano commercianti, stabilivano collegamenti tra popoli diversi. Quali motivi spingevano i pellegrini a mettersi in viaggio? Come ci si doveva preparare al viaggio? Com’era la vita quotidiana di un pellegrino? Dove alloggiava, come mangiava? Quali pericoli incontrava? Attraverso la vita dei pellegrini si apre uno squarcio su tutta la straordinaria vitalità del mondo sociale e culturale del Medioevo: mercanti di reliquie, briganti pentiti e penitenti, cavalieri devoti e frati imbroglioni, uno stuolo di uomini e donne che percorrevano le strade d’Europa alla ricerca della salvezza.
Anonimo, Libro delle Ore di Maastricht, 1300-1325 ca., British Library, BL Stowe MS17, fol. 207 v.

San Francesco d’Assisi è stato oggetto di una sterminata devozione che lo ha portato ad assurgere al ruolo di eroe-modello di virtù specchiata, al tempo stesso asceta in grado di sconvolgere la spiritualità del suo tempo, giullare di Dio in rotta con le istituzioni, santo delle crisi, padrino del dialogo interreligioso, ma anche soggetto snaturato dagli innumerevoli cliché scontati. L’accoglienza dell’altro in chiave di conversione – a partire dall’episodio del bacio al lebbroso – è l’argomento della conferenza del teologo Brunetto Salvarani.

Come testimonia nei suoi scritti, Francesco propone un modello di vita fondato sulla “formula del Santo Vangelo”, per realizzare il quale è necessario essere pienamente al di qua della vita. Secondo questa prospettiva, l’accoglienza dello straniero – che è uno dei temi centrali – è possibile solo se si opera su se stessi. La scelta della povertà individuale non deriva quindi da un’impostazione etica, ma da una radicale conversione del cuore (teshuvà o metànoia). Solo diventando povero con i poveri (e facendo propria la loro miseranda esistenza) si riesce ad accogliere e ospitare l’altro.

Questo aspetto emerge chiaramente nel suo Testamento: la sua conversione e l’avvicinamento al Vangelo sono il frutto dell’incontro con i diseredati e i lebbrosi, che manifestano la radice divina. Povertà, umiltà e fraternità sono le radici dell’ospitalità di San Francesco, che non è solo una scelta episodica ma la caratterizzazione di tutta l’esistenza.

Giotto di Bondone, San Francesco davanti al Sultano, 1297-1300 ca., Assisi (PG), basilica superiore di San Francesco

3. Crociate. Il contatto con l’Oriente

Nel 1219, nel pieno della quinta crociata (1217-1221) indetta da papa Onorio III, Francesco d’Assisi si reca a Damietta, in Egitto, dove è in corso l’assedio crociato. Le fonti agiografiche raccontano dell’intenzione del futuro patrono d’Italia d’incontrare il sultano al-Malik al-Kāmil, nipote del Saladino, nonché uomo di grande cultura e amante della pace. Su questo notissimo episodio gli storici, i teologi, gli artisti e gli scrittori s’interrogano da oltre ottocento anni: quale ragione ha spinto Francesco ad intraprendere un viaggio che lo porta ad attraversare le pericolose linee nemiche? Qual è la sua missione e che relazione intercorre fra essa, i piani militari degli eserciti crociati e il fanatismo di molti protagonisti di quelle vicende? 

Le fonti su quell’incontro non sono molte e non vi è alcuna certezza su quello che Francesco, frate Illuminato da Rieti e il sultano si siano detti durante il lungo colloquio. Probabilmente, i frati partecipano ad una disputa con i dotti musulmani al servizio del sovrano e annunciano il messaggio di Cristo, provando a convincere gli infedeli ad abbandonare la loro religione. Secondo la Chronique d’Ernoul e il Liber de acquisitione Terrae Sanctae, Francesco e Illuminato sfuggono alla condanna a morte solo grazie all’intervento diretto di al-Malik al-Kāmil, che risparmia loro la vita ma non si converte al cristianesimo. Altre cronache raccontano invece di un sfida – o ordalia – del fuoco che però non ebbe mai luogo e che avrebbe dovuto mostrare la superiorità degli insegnamenti di Gesù.

Il santo, l’eroe cristiano è ancora una volta il pellegrino che possiede poco di più dei suoi umili abiti e che si reca in una terra straniera che gli è ostile per superare delle prove. Come molti altri santi, Francesco è dunque il soggetto di una narrazione ricca di aneddoti su pericoli e insidie, che sfocia quasi nel mito nel tentativo di fornire un modello di fede incrollabile.

Gustave Doré, San Francesco davanti al sultano, da Joseph-Francois Michaud, Storia delle crociate, 1877
Gustave Doré, Nemici dei Crociati, da Joseph-Francois Michaud, Storia delle crociate, 1877

L’incontro con l’altro e l’alterità è una costante di tutto il Basso Medioevo. La rete dei contatti e degli scambi commerciali, il pellegrinaggio e i conflitti contribuiscono alla circolazione di merci, persone e idee.

A queste date mercanti, pellegrini e soldati e le altre categorie di cui si parlava in apertura non sono più le uniche figure a percorrere le grandi vie di comunicazione collaudate dall’Impero romano e dai Bizantini o le rotte di navigazione del Mediterraneo dominate dalle Repubbliche Marinare italiane.

I viaggiatori arabi – come Ibn Giubàir (1145-1217) e Ibn Battuta (1304-1377) – e quelli europei – si pensi a Guglielmo di Rubruck (1220-1293) e a Marco Polo (1254-1324) – vivono in prima persona esperienze incredibili che poi raccontano in opere letterarie che ancora oggi vengono pubblicate e lette con grande interesse. L’Itinerario di Ibn Giubàir, Il dono degli osservatori di Ibn Battuta, il Viaggio in Mongolia di Guglielmo di Rubruck e Il Milione di Marco Polo contengono informazioni sulla storia politica e del costume di genti e terre lontane e costituiscono un fondamentale contributo alla letteratura di viaggio.

  • Fatima Sharafeddine, Ibn Battuta. Edizione italiana e araba, ebook 2022
  • Erich Follath, Al di là dei confini. Viaggio nel mondo dell’Islam sulle tracce del grande avventuriero Ibn Battuta, ebook 2017
  • Patrizia Manduchi, “Al suon di corni, trombe e tamburi…”: Ibn Battuta a Costantinopoli, in “Storia urbana: rivista di studi sulle trasformazioni della città e del territorio in età moderna”, a. 38, n. 146, gen-mar 2015, pp. 15-37
  • Fatima Sharafeddine, Il favoloso viaggio di Ibn Battuta, ebook 2013
  • Ibn Battuta, I viaggi, ed. 2006 – Nel 1353 Ibn Battuta, partito da Tangeri 28 anni prima, torna definitivamente in Marocco dopo ventotto anni di viaggi e centoventimila chilometri percorsi con tutti i mezzi di trasporto allora in uso. Secondo un odierno atlante geografico, ha attraversato l’equivalente di quarantaquattro stati moderni dall’Africa a tutto il Medio Oriente, dalla pianura del Volga alle isole Maldive, dall’India alla Cina, incontrando migliaia di persone e prendendo nota dei loro usi e costumi. Tre anni dopo il suo ritorno, un giovane letterato di origine andalusa, Ibn Juzayy, inizia per ordine del sultano ad annotare i ricordi di Ibn Battuta e le sue osservazioni di viaggio, scrivendo cosi uno dei libri più famosi della letteratura araba medievale.

Il Cristianesimo dei primi secoli fa da ampio sfondo all’incontro di identità molto diverse. L’ “alterità” è completamento e insieme contraltare rispetto a quel sentimento di estraneità al mondo che è proprio dei primi cristiani, conseguenza del concetto di trascendenza introdotto dal Cristianesimo stesso. In tal senso, lo straniero si configura come la cifra per riflettere sulla propria natura e sulle proprie conoscenze.

I primi cristiani, fra il II e il V secolo, si sentono estranei rispetto al mondo, abitano una patria terrena ma sono forestieri o soggiornanti temporanei (paroikos). Di fatto, sono pellegrini che condividono le leggi delle comunità in cui vivono senza tentare di assimilarsi: le loro azioni e i loro pensieri sono guidati da forti tensioni escatologiche attraverso le quali ambiscono al ritorno alla propria città, quella celeste.

https://www.fondazionesancarlo.it/episodio/laldila-nel-cristianesimo/

Alcuni autori gnostici hanno in seguito elaborato il concetto di straniero ‘forte’, completamento diverso, allogeno, una sorta di primo fra gli stranieri, figlio – a sua volta – di un dio straniero. Fra IV e V secolo, in Siria ed Egitto, nel più ampio contesto della cultura monastica, emerge invece la xeniteia, un vocabolo che rimanda al soggiorno del mercenario al di fuori del proprio paese. Secondo questa terza interpretazione di estraneità, il monaco cristiano abbandona volontariamente la propria patria per vivere in un luogo lontano, diventando così un soldato di Cristo che accetta un sentimento di spaesamento individuale e, talvolta, spirituale.

Quali sono le “maraviglie e gran diversitadi” descritte dai viaggiatori del passato? Cosa colpiva l’immaginazione dei primi esploratori di cui abbiamo notizia, cosa veniva considerato inconsueto o radicalmente diverso per coloro che, intorno al nono secolo, ricominciarono a percorrere le strade dei tre continenti conosciuti?

Senza la pretesa di compilare l’ennesima storia dei viaggi, Duccio Balestracci ha voluto “capire che cosa abbiano «riportato a casa», nelle proprie menti, i viaggiatori e tutti gli altri che, comunque, entrarono in contatto diretto con culture differenti dalla propria, in termini di conoscenza del mondo, in generale, e di un «mondo altro», in particolare” (p. XI).

Agli occhi dell’enciclopedista iracheno al-Masudi (Abū al-Ḥasan ʿAlī al-Masʿūdī, 897-957 o 965), che scrive nel momento di massimo splendore della cultura arabo-islamica, e il cui manuale restò fino alla metà del Quattrocento il riferimento per geografi e storici di lingua araba e persiana, sono naturalmente gli occidentali ad apparire “strani”, pallidi, azzurrognoli, imbevuti di umidità che rende molliccia la carne.

Da gente di tale aspetto, dunque, non c’è da aspettarsi alcunché di buono: l’ambiente freddo che abitano ha plasmato anche le loro scarse qualità morali e – persino – le deboli credenze religiose. Tuttavia, come scrive Balestracci, per gli occidentali “il vero serbatoio delle mostruosità umane resta, come sempre, l’Oriente”: l’incarnato nero, in particolare, suscita la ripugnanza di molti osservatori europei – fra cui anche Marco Polo – che, inconsapevolmente, ereditano l’ostilità dei primi cristiani per i contingenti etiopi inquadrati nell’esercito di Roma.

Agli occhi degli occidentali anche i cinesi non sono campioni di bellezza: secondo Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck le loro mascelle sporgenti, il naso piatto, gli occhi piccoli, la bassa statura e le barbe rade li rendono spaventosi e ripugnanti (p. 178). Barbe e capelli tornano spesso nei racconti come “misura” della diversità, indipendentemente dal giudizio estetico: Ibn Battuta racconta che gli indiani ungono il capo e la barba con l’olio di sesamo e poi si lavano con l’argilla, ottenendo così peli folti e belli (p. 182). Molti autori occidentali influenzati dai classici cataloghi monstrorum si spingono persino ad inventare creature orrende che dicono di avere visto o sul cui conto hanno ascoltato molte storie: esseri con un solo braccio in mezzo al petto, popoli che vivono sottoterra perché incapaci di sopportare il rumore del sole che sorge, uomini del deserto senza le giunture nelle gambe e che dormono in piedi popolano le pagine di tanti resoconti (p. 317 e seguenti). 

Questa storia è stata scritta con il contributo di Lorenzo Ferrari e Daniele Borghi