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L’essere umano e la natura. La domanda ecologica

Martina Perotta, L’essere umano e la natura – ‘Il tikkun ‘olam: prendersi cura del mondo attraverso le generazioni’

1. La natura “selvaggia”

L’idea di ecologia come armonica ed equilibrata convivenza dell’uomo nella natura, e accettazione delle sue leggi, è insieme innata nell’uomo e difficilmente ripristinabile.

Le domande intorno a questo tema attraversano la storia del pensiero filosofico e religioso e spesso corrono parallele rispetto alla pratica quotidiana. E’ quest’ultima, affidata al mondo rurale, ad aver mantenuto vivo un sapere antico e diffuso orientato all’uso delle risorse e delle terre in termini di sussistenza.

Focus: madre matrigna. Quando la natura detta le leggi

Guido Barbujani (professore di Genetica – Università di Ferrara), Ambienti preistorici, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 5 ottobre 2018

Che vita facevano i nostri antenati africani? Se la passavano male, direi. Non erano in grado di produrre o di conservare il cibo; l’agricoltura l’abbiamo scoperta solo 10.000 anni fa. Andavano in giro, a caccia; quando riuscivano a uccidere un animale, o a raccogliere qualche frutto o qualche tubero, mangiavano; quando non ci riuscivano saltavano il pasto, e tutto lascia credere che questa fosse più la regola che l’eccezione […] Gli studi più recenti sul DNA di alcuni individui preistorici europei indicano che la costituzione genetica della popolazione è cambiata diverse volte, e in modo particolare quando, intorno a 10.000 anni fa, con l’invenzione dell’agricoltura, si è cominciato a produrre più cibo e i portatori delle nuove tecnologie alimentari si sono espansi dal Vicino Oriente portando con sé la propria cultura, i propri geni e (forse) anche le proprie lingue.

  • Irenäus Eibl-Eibesfeldt, L’avventura umana: natura e possibilità culturali, 1980 – Se esiste un tipo di vita cui noi uomini possiamo adattarci biologicamente, è certo quello del cacciatore e raccoglitore paleolitico; esso è stato, infatti, il sistema di vita condotto dai nostri antenati per due milioni di anni fino alla rivoluzione neolitica di poche migliaia di anni fa.
  • Guido Chelazzi, L’impronta originale. Storia naturale della colpa ideologica, e-book – Fuori e contro la natura o fatalmente legati a essa? Distruggeremo il pianeta su cui siamo nati e cresciuti, o avremo la capacità di condurlo verso nuovi e stabili equilibri? Ricostruire l’origine delle dimensioni ecologiche dell’uomo non è soltanto un esercizio intellettuale ma può ispirare la ricerca di soluzioni concrete al problema che siamo riusciti a crearci in duecentomila anni sulla Terra. Come è nato l’opportunismo che ci fa vivere nei climi più inospitali e sfruttare le catene trofiche di ecosistemi tanto diversi? Quando abbiamo cominciato a trasformare la flora e a eliminare le faune? Come abbiamo sviluppato la capacità di costruire originali nicchie ecologiche per intrappolarvi noi stessi e le specie che abbiamo scelto di schiavizzare? Quali sono state le prime attività umane a lasciare il segno nell’atmosfera e a modificare il clima?

2. La reinvenzione della “natura selvaggia

F. Brevini, L’invenzione della natura selvaggia, 2013

Nella cultura dell’ancien régime  [la natura selvaggia] era assente, nel senso che non esisteva come idea a sé, proprio mentre [essa] trionfava invitta e rigogliosa al di fuori delle categorie culturali dell’uomo, in un mondo ancora pieno di foreste vergini, di isole deserte e di montagne mai scalate. Al contrario, nella modernità la natura selvaggia è quanto mai presente, la sua idea si è compiutamente affermata nella nostra cultura, ma solo per testimoniare la propria tendenziale e inarrestabile cancellazione dalla realtà

Nella seconda metà del Settecento si vennero configurando i contorni di un atteggiamento “arcadico” nei confronti della natura: l’ideale di uno stile di vita semplice e umile che potesse ripristinare una coesistenza pacifica fra l’uomo e l’ambiente, avversa alla crescente antropizzazione.

Era tuttavia un’evidente distorsione. Nella descrizione dell’agricoltura di sussistenza come una scena pastorale idilliaca c’era una componente di idealismo e di irrealtà che mal rifletteva le problematiche reali di un mondo legato a colture fisse e alle malattie portate da una dieta basata su pochissimi alimenti, di una scienza per molto tempo pressoché impotente di fronte alle stagioni avverse, alle colture infestate dai parassiti, alla siccità o alle numerose concause che potevano portare a stagioni di carestia.

Franco Brevini (professore di Letteratura italiana – Università di Bergamo), La natura selvaggia. Origini e sviluppi di un modello culturale nella modernità, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 26 ottobre 2018

Nel mondo dell’ancien régime il bosco e le montagne erano caratterizzati negativamente come luoghi non riscattati dal lavoro dell’uomo, mentre alcuni decenni più tardi sarebbero stati vagheggiati come luoghi miracolosamente risparmiati dall’incedere distruttivo della civiltà. […] In Rousseau, come in molti uomini di cultura del Settecento, l’idea di natura rinvia alla condizione originaria, verrebbe da dire antologica dell’uomo, invece che a uno stato più vicino alla wilderness. Piuttosto che come un’effettiva situazione storica e culturale, si offre dunque come una categoria sostanzialmente antihobbesiana, incaricata di innescare una proficua reazione. Uno «strumento di autocoscienza», come è stata giustamente definita, o un’astrazione, concepita per mostrare allo stato puro, quasi fossimo in laboratorio, le forze che agiscono nell’uomo, prima di ogni costrizione o condizionamento.

Focus: l’illusione del paradiso perduto

Donald Worster, Storia delle idee ecologiche, 1985, pp. 40-42

L’industrializzazione era solo uno dei mali della civiltà. Ben presto ci si rese conto che anche la scienza poteva diventare una minaccia più che un antidoto.

Molti saggisti [ottocenteschi] capirono che i loro lettori, infelici e disorientati, avevano bisogno di ben altro che una fuga temporanea nella lettura di saggi sulla natura nella quale immergersi durante piacevoli passeggiate nei boschi. Un anonimo scrittore americano affermò che si sentiva l’esigenza di un nuovo “vangelo della natura” che predicasse la rinascita “del rapporto personale di ogni uomo con il mondo circostante, e quindi con Dio”. L’intento di questi naturalisti popolari era quindi religioso, spirituale e scientifico al tempo stesso; [per loro] risultava chiaro che l’alienazione moderna dalla natura e da Dio era frutto di quella stessa scienza che essi avevano abbracciato. L’uomo era stato “come congelato” dallo spirito scettico della nuova scienza, “il freddo cosmico” dell’universo incerto e meccanico di Darwin e di altri scienziati aveva lasciato orfano lo spirito umano.

Ridare alla ricerca scientifica parte del calore, dell’ampiezza e della religiosità che [i naturalisti del Settecento] avevano instillato in essa… divenne centrale per la saggistica [tardo ottocentesca] sulla storia naturale.

La teoria del vitalismo… riteneva che le piante e gli animali agissero spinti da un potere intrinseco e misterioso che la fisica e la chimica non riescono ad analizzare. Si vide in essa la promessa di “tramutare e rendere più spirituale la scienza” sostituendo l’imperante “spiegazione fisico-chimica della vita e della coscienza” con un’energia creativa, imprevedibile e organizzatrice, insita in tutti gli organismi. La natura sarebbe così diventata “gioia vivente, qualcosa da amare” e gli uomini avrebbero cessato di essere semplici macchine.

William Henry Hudson sosteneva che ogni organismo, ogni molecola e ogni atomo non solo possiede una psiche o uno spirito immateriale ma è anche parte interdipendente dell’organismo onnicomprensivo della natura, animato da uno spirito unificatore. A sua volta, John Muir intravedeva nella natura un tutto organico tenuto insieme da “ un amore essenziale, avvolgente, fondamentale, insito in ogni cosa”.

La nozione di vitalismo e la sua estensione panvitalistica e panpsichistica, proposte da questi illustri saggisti, era da un lato una dottrina di tono romantico e religioso, dall’altro un assioma scientifico. Veniva offerta come strumento per ridare alla scienza parte della vecchia religiosità arcadica e per ricreare, in una comunità scientifica che era andata troppo oltre nel sezionare la natura in parti slegate fra loro, la prospettiva ampia e organica di Gilbert White e dei naturalisti del Settecento. Il fascino di quell’età perduta stava nel fatto che un uomo poteva apportare contributi importanti alla conoscenza senza rinunciare al suo ruolo di pastore, cittadino, sportivo, o gentiluomo di campagna.

3. Il pragmatismo ottocentesco. L’avvento della chimica

L’avvento della rivoluzione industriale, con il progressivo abbandono delle campagne e la crescita esponenziale della popolazione cittadina, aveva forzatamente cambiato, in modo repentino, il secolare rapporto dell’umanità con la coltivazione. Le necessità impellenti di fornitura di alimenti ad una popolazione che sempre più si dedicava ad altre produzioni abbandonando i campi, e quindi lo squilibrio venutosi a creare repentinamente fra domanda e offerta – di cui parliamo qui – aveva nel tempo stimolato la ricerca sia verso l’approccio alla coltivazione intensiva, sia, nel tempo, alla chimica dei fertilizzanti e degli antiparassitari.

L’introduzione della chimica fu salutata come una innovazione irrinunciabile nelle campagne modenesi all’inizio del Novecento e poi rivisitata in senso fortemente critico con il ritorno a coltivazioni che usano metodi di lotta biologica la cui incidenza sul totale, ad oggi, è ancora di nicchia.

Focus: i pregiudizi e l’agricoltura

Università popolare lezioni XL e XLI (Pietro Costa Giani, Memorie del Collegio, p. 183)

I pregiudizi e l’agricoltura.

29 Maggio 1906 – Nelle sere del 26 e 28 cadente mese il Prof. Antonio Marozzi teneva la sua lezione sul tema I pregiudizi e l’Agricoltura – La cooperazione agraria, il terreno. L’egregio professore con forma piana dimostrava come siano dannosi i pregiudizi che dal contadino si hanno sulle cause che danneggiano l’agricoltura specialmente per ciò che riguarda i persolfati chimici, i concimi ecc. che vengono osteggiati dall’agricoltore, mentre, mercé il loro aiuto, si ottengono copiosi raccolti, e così pure sui mezzi che si addoperano ora per curare la vite. Trattava della grande importanza che hanno le cooperazioni agrarie, le quali aggevolano ai proprietari i mezzi necessari per rendere più fruttiferi i loro terreni, sia somministrando persolfati chimici, sementi di primo ordine, sia coll’istruire i vari sistemi culturali più proficui. Infine si intratteneva sulla natura dei terreni della nostra provincia sia al piano, sia al monte indicando a quali coltivazioni più lucrative e proprie si debbono coltivare, ed accennava ancora la necessità di rimboscare i nostri monti, ora quasi debellati dalle annule [sic] piante, con danno dell’agricoltura e del commercio della provincia modenese. Alla fine delle sue due lezioni d’egregio professore veniva salutato da un applauso unanime degli intervenuti numerosi, i quali gli addimostravano il grande interessamento da loro preso, e l’utilità pratica da ricavarsi dal suo detto.

Focus: spiragli d’attenzione. Gli studi a favore delle api

Modo pratico per conservare le api e per estrarre il mele senza ucciderle dell’avvocato Luigi Savani, 1811

Luigi Savani, avvocato, si dedicò allo studio dell’allevamento delle api. Non fu il primo: dopo la grande stagione dell’apicoltura in epoca romana seguirono secoli di silenzio e poi un risveglio d’interesse, durante il Settecento, determinato anche dall’uso del microscopio e quindi dall’analisi più puntuale dell’anatomia dell’ape e delle sua caratteristiche.

Savani, fra gli altri, mise a punto un metodo che avrebbe permesso di estrarre miele e cera senza far morire le api stesse e ne inviò una copia al celebre botanico e agronomo italiano Filippo Re, il quale lo apprezzò e ne promosse la pubblicazione. Non è possibile tuttavia leggervi del tutto disinteressatamente una coscienza ecologica ante litteram: per sua stessa ammissione Savani intraprese lo studio del miele tanto più volentieri, in quanto che mi sono lusingato di potere per tal guisa giovare ai miei simili ed alla società (nell’attuale circostanza segnatamente ove l’esorbitante prezzo degli zuccari non permette ormai alla maggior parte della popolazione di poterne più far uso). Il blocco dell’esportazione dello zucchero di canna dall’Inghilterra, imposto da Napoleone nel 1806, aveva determinato una ulteriore spinta perché si trovassero rimedi per la domanda di dolcificanti, ormai comune a più classi sociali.

Tuttavia Savani è uomo moderno, e pur sullo sfondo delle necessità economiche non può che scagliarsi contro l’usanza così brutale e contraria al pubblico e privato interesse come quella di uccidere le api per ricavarne il miele e la cera, usanza che non può trarre la sua origine che dai secoli rozzi.

Luigi Savani

Non puossi non essere compresi da alta meraviglia qualora si consideri che in pressoché tutte le arti ed in tutte le scienze siasi nei secoli a noi più vicini migliorato dalle antiche, e di molto pur aumentate le cognizioni; e che all’incontro nella cultura delle Api siasi enormemente peggiorato, cosicché in essa ci troviamo molti inferiori a quelle stesse nazioni che volgarmente osansi contraddistinguere col nome di barbare

4. Diffidenza e fortuna del movimento ecologico

Non è solo una questione di difficoltà più o meno reali legate alle metodiche di coltivazione, è anche un problema di approccio politico: almeno fino agli anni Settanta o Ottanta del Novecento il “movimento ecologico” poteva essere salutato variamente come un attacco alla metodologia scientifica, una nostalgia arcadica, o un sogno di qualche sparuto artista e poeta che poi, quasi inaspettatamente, inizia ad essere appoggiato da scienziati di “frange estreme” di pensiero.

Focus: intervenire sul mondo

Guido Chelazzi (professore di Ecologia – Università di Firenze), L’impronta ecologica. L’impatto delle comunità umane sugli ecosistemi terrestri, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 16 novembre 2018

Da quando è stata inventata, negli anni Novanta del secolo scorso, l’etichetta ecological footprint – che Mathis Wakernagel e William E. Rees appiccicarono al loro metodo per calcolare l’effetto ambientale delle attività umane – ha riscosso un grande successo sia tra gli ecologi che presso il pubblico interessato alle questioni ambientali, perché esprime con efficacia e immediatezza l’idea di un pesante calpestìo umano sugli ecosistemi del pianeta per la necessità di estrarne risorse, installarvi le proprie infrastrutture e riversarvi i propri rifiuti.

Focus: la farfalla e il terremoto. Gli effetti globali delle azioni

Antonello Pasini (ricercatore e fisico del clima – CNR di Roma), Cambiamenti climatici. Analisi di cause e impatti del riscaldamento globale, conferenza tenuta il 1 marzo 2019 presso la Fondazione Collegio San Carlo

I sistemi di pensiero e di politica contemporanei si basano ancora sulla dicotomia fra l’uomo, essere agente, e la natura, intesa come inerte e plasmabile a piacere. In questo contesto l’ambiente è sempre stato considerato come un serbatoio statico (e di capacità infinita) da cui attingere risorse e in cui gettare rifiuti senza che lei, la Natura, dica nulla. Ma allo stesso tempo anche il pensiero ecologico tradizionale si basa su questa dicotomia: vengono istituiti parchi e aree protette per separare la Natura dall’uomo, perché l’uomo può fare dei danni. L’uomo ha una dinamica che la natura non ha. Tuttavia la scienza dice qualcosa di molto diverso: la Natura ha una dinamica, che si potrebbe chiamare vitale, e che interagisce con la dinamica dell’uomo: l’unica soluzione è raccordare queste due dinamiche.

Focus: siamo ciò che mangiamo. Il cibo come rete

Carlo Petrini (presidente Slow Food internazionale), Buono, pulito e giusto. Una nuova cultura e una nuova politica del cibo, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 13 marzo 2009

Descrivendo il cibo come rete di persone, luoghi, prodotti e saperi, non possiamo fare a meno di sentirci immediatamente parte di essa, in quanto gastronomi. Siamo in una rete del cibo. Che va dal globale al particolare, che si esplicita tanto a livello universale quanto a livello locale, sia per chi produce sia per chi coproduce. Ora, molti dei nodi che compongono questa rete non sanno nemmeno di essere collegati, sono tenuti virtualmente separati, non comunicano affatto (si pensi alla separazione tra produttori e consumatori). 

L’obiettivo è quello di riattivare i collegamenti, partendo da quelli che rispondono ai criteri di qualità per il buon gastronomo, e di estendere poi la rete il più possibile. La rete, in quanto tale, si sta rivelando uno strumento potenzialmente rivoluzionario per tutte quelle istanze che vanno dall’economia solidale globale ai gruppi di interesse sulle attività sostenibili o sulla difesa dei diritti civili.

5. Le culture del mondo: un confronto necessario

Lungo le strade della ricerca di un ritrovato, rinnovato o ricreato equilibrio fra la natura e la presenza umana un confronto stimolante, ricchissimo di suggestioni e di temi sempre vivi è dato dall’ascolto delle radici più antiche della cultura cristiana nel confronto con le culture non europee: proprio lungo questi percorsi che riguardano la responsabilità sociale, alla luce delle tradizioni culturali e religiose, si riscoprono valori fondanti del rapporto ancestrale dell’uomo con il mondo che lo circonda.

Lo sguardo, in questo senso, comprende un’armonia più vasta a seconda del taglio proprio di ciascuna cultura: armonia dell’essere con il Creato, dell’uomo con i doveri imposti dalla propria posizione sociale – tema che riguarda molto da vicino un concetto proprio di giustizia – o armonia con l’imprescindibile, con l’onnipresente, o con le diverse anime che abitano le forme viventi.

Focus: armonia e responsabilità nella tradizione induista

Stefano Piano (professore di Indologia – Università di Torino), Il bene del mondo. Armonia del cosmo e responsabilità individuale nella tradizione induista, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 6 dicembre 2011

L’uomo è partecipe della realtà. In India sono stati elaborati numerosi punti di vista, o visioni sulla realtà, che hanno come punto in comune il fatto che l’uomo fa parte della realtà, è parte della natura: fa parte dell’evoluzione del principio della natura. Ma allo stesso tempo l’uomo è anche partecipe della realtà ultima: è Natura ma è anche spirito.

Nei Sukta, nei “bei detti” delle parti più antiche dei Veda, nelle collezioni di inni religiosi, di canti religiosi, gli elementi della natura, la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria, sono connotati di una speciale sacralità, grazie alla loro diversa ma sempre stretta connessione con il mistero della vita. Le acque, che sono il grembo del fuoco, sono considerate madri, datrici di vita, e così anche la terra, ampiamente cantata ad esempio in un inno che porta proprio il titolo “Inno alla terra”. In questo inno la terra è considerata madre sostentatrice, genitrice di tutte le cose, genitrice dell’umanità, dei mortali che su di essa si muovono, in una visione che come sempre accade in India comprende in un solo abbraccio tutti gli esseri viventi. L’antico cantore, con lungimirante intuizione sembra anche preoccuparsi dell’integrità della terra, nella quale si cela una gran quantità di tesori: “qualunque cosa io scavi fuori da te, o terra, possa tu venir subito rifornita”.

Focus: la cura del creato nell’ebraismo

Massimo Giuliani (professore di Pensiero ebraico – Università di Trento), Per un mondo migliore. Cura del creato e responsabilità personale nell’ebraismo, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo l’8 novembre 2011

Punto di partenza è un filosofo medievale, Mosé Maimonide, chiamato Rambama, XII secolo, il quale nella sua opera più famosa, più rilevante, la “Guida di coloro che sono perplessi, che sono disorientati” dice che due sono le fonti della Rivelazione: la Torah e la Natura. Questo è molto medievale, ma molto lontano da certe schematizzazioni catechistiche. Certo, se prendiamo la maggior parte delle storie della Torah non possiamo sottrarci all’impressione che si tratti di una prospettiva antropocentrica, ma se guardiamo più da vicino per esempio gli stessi racconti della Creazione vediamo che il giudizio di Dio è su tutta la creazione, non solo sulla creazione dell’uomo. Tutti gli esseri viventi – commenta Maimonide – sono stati creati per se stessi.

Tutti abbiamo una certa familiarità con i racconti della Genesi. In un trattato talmudico c’è una disputa fra due maestri su una questione esegetica: perché l’uomo, l’essere umano, l’uomo e la donna, sono stati creati per ultimi?

Per un maestro Dio ha agito come un re che ha voluto preparare un grande banchetto e ha invitato per ultimi gli ospiti d’onore, l’essere umano. Ma subito un altro maestro gli ribatte: sono stati creati per ultimi perché nei casi in cui l’uomo si atteggia ad essere superiore gli si può ricordare che è stato creato addirittura dopo le zanzare, tanto in basso è nel gradino della creazione.

Focus: il grande libro del Creato

Simone Morandini (professore di Teologia sistematica – Facoltà Teologica del Triveneto, Padova), La terra di tutti. Ecologia e sostenibilità ambientale nel pensiero cristiano contemporaneo, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 25 gennaio 2013

Francesco ci orienta alla riscoperta di una spiritualità del limite, ben cosciente che solo Dio possiede le chiavi della sua creazione, che solo lui ne è il Signore. Che la nostra potenza e la nostra conoscenza sono sempre limitate e non possono da sole garantirci quella sicurezza vitale, che solo nella sintonia col creato e con gli altri possiamo trovare. Egli aveva ben compreso che l’humilitas è l’atteggiamento che davvero compete a un humanum, che – pur in tutta la sua potenza – resta sempre creato dalla terra, dall’humus, dalla «polvere del suolo»  secondo il racconto di Genesi 2.

Lo stesso racconto esprime del resto tale accentuazione già nel nome stesso del primo uomo: Adamo è colui che è tratto dall’adamah – è il terrestre, il terreno, il terroso – colui che è chiamato a coltivare e custodire la terra, per vivere gioiosamente di essa e su di essa. Nella creazione, insomma, non possiamo stare con l’arroganza di chi si crede padrone, che tutto sa e che tutto può: il nostro ruolo, ben più modesto, è quello di chi si riconosce servo, chiamato ad amministrarla responsabilmente.