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L’agricoltura e le scelte politiche

Matteo Sperandini, L’agricoltura e le scelte politiche – La “scoperta della natura” nel XII secolo: la “Scuola di Chartres”

J.B. Lamarque, 1809

E’ a questi corpi singolari e veramente ammirevoli che si può dare il nome di Corpi viventi; e la vita che essi possiedono, così come le facoltà che ne ottengono, li distinguono dagli altri corpi della natura. Offrono in loro stessi e nei diversi fenomeni che presentano i materiali di una scienza particolare che non è ancora stata fondata, che non ha nome, di cui ho proposto qualche base nella mia Filosofia zoologica e che chiamerei biologia

1. Di necessità virtù

Sarebbe troppo lungo tracciare la storia delle “scoperte” e “riscoperte” del mondo naturale, di tutti i momenti in cui, in svariati angoli della Terra, filosofi e scienziati hanno dovuto ricominciare ad osservare, riaprire la finestra. Eppure, sotto traccia, le necessità legate all’alimentazione e alla cura hanno sempre mantenuto un legame necessario fra l’uomo e la Natura. E’ proprio intorno all’alimentazione e alla cura che, in un prezioso esempio di monachesimo illuminato del XII secolo, si trovano le aperture più interessanti ed è ancora intorno a queste due esigenze primarie per la sopravvivenza che, nel Settecento, si torna a riflettere in modo sistematico.

I governanti di alcuni paesi europei nel corso dell’età dei Lumi dimostrarono un interesse crescente verso gli studi sul mondo naturale, interesse maturato secondo stimoli differenti ma evidente lungo tutto il Settecento, con ricadute talvolta notevoli in più settori. Nel Ducato Estense questa attenzione crebbe fino a concretizzarsi in Modena, grazie anche alla presenza di Lazzaro Spallanzani e più tardi di Bonaventura Corti, nell’istituzione della Cattedra universitaria di Botanica nel 1765.

Lungo questo percorso non ci soffermeremo sugli aspetti teorici della ricerca scientifica ma sulle motivazioni pratiche di questo crescente interesse riconducibili, in buona parte, a due grandi interrogativi.

2. Dagli orti dei semplici ai laboratori chimici

Da una parte si cercavano risposte, fondamenti, elementi razionalmente comprensibili e formule ripetibili per i medicamenti. Dal mondo naturale, infatti, derivavano i semplici, gli estratti di origine animale, i metalli, ovvero le sostanze destinate sia ai mortai dei curatori popolari, sia agli albarelli degli speziali ufficialmente riconosciuti.

Credenze popolari e farmacopea fantasiosa a parte, la ricerca del principio attivo contenuto nelle piante richiedeva ormai risposte razionali. Continueranno tuttavia a sussistere rare e celebri eccezioni, celebrate come rimedi ufficiali ma dalla formula più simile ad un miscuglio stregonesco, come la preparazione della teriaca. Composto dalle virtù quasi magiche, capace di togliere i dolori e guarire molti mali, dalla formula gelosamente custodita e diversa per ogni città, venduto a peso d’oro, sarà bandito definitivamente dalla vendita quando, all’alba del XX secolo, ne fu smascherato il segreto – la presenza di oppiacei – che ne faceva una potente e illusoria panacea.

I cambiamenti radicali nella cura – e nell’idea di cura – sono oggetto di approfondimenti dedicati: vedi “Medicina e società” e “Medicina e salute. Dalla conoscenza all’osservazione

Focus: l’orto benedettino

L’Hortululs dell’abate benedettino alemanno Walafrido, vissuto nel IX secolo, non è né il giardino dell’Eden né un luogo intriso di mitologia o letteratura: “è un piccolo luogo ove regna la semplicità monastica e crescono con il soccorso della natura e l’operosità del giardiniere gli ortaggi per la tavola, le piante medicinali per i malanni corporei, infine i fiori che con la loro bellezza celebrano la beatitudine celeste insieme alla transitorietà della vita. […] l’orticello è signaculum della disciplina nel lavoro, del rispetto per la natura, della sobrietà con cui affrontare la vita” (dalla prefazione di Mario Gennari).

Walhafrid è un uomo colto. A Fulda viene in contatto con Rabano Mauro e avverte l’influsso di un ambiente aperto allo studio delle arti liberali. Nell’829 viene chiamato ad Aquisgrana presso la corte di Carlo Magno, ovvero nella sede centrale del potere temporale, luogo dove si andava disegnando la riforma dell’assetto dell’Europa cristiana.

Dovranno passare ancora alcuni secoli perché l’approccio all’hortulus divenga nuovo sguardo verso la natura: ne sarà protagonista la scuola di Chartres.

Walhafrid von Reichenau, Hortulus. Coltura e cultura del giardino, Genova 2017

Molteplici sono i segni che distinguono una vita serena e fra questo non è certo trascurabile quanto fa colui che, dedito all’arte del giardinaggio… impara la cura degli orti. […] Tu, giardiniere, seguitando nella cura e senza abbandonarti all’indolente accidia, anziché denigrare con parole meschine la fatica del lavoro nell’orto adoprati sporgendo il copioso concime sul terreno riarso e polveroso, e non inquietarti per le mani sporche, i possibili calli o la gelida brezza del mattino.

Era stata la primavera ad ammantare di foglie i boschi, di erba rigogliosa i monti, di fitta verzura i campi ameni. Ma ecco che il modesto appezzamento di terreno, disposto a Oriente nel capace pianoro su cui s’affaccia la porta della mia cella, è stato infestato dalle ortiche che con i loro strali venefici hanno ricoperto la superficie dell’orto. Che fare?

3. Coltivare, ottimizzare, sopravvivere

Il secondo settore sul quale si concentravano gli sforzi e i finanziamenti dei governanti riguardava le coltivazioni. Il passaggio dalla sussistenza ad una scienza delle coltivazioni si ebbe proprio in questo periodo.

La seconda metà del Settecento fu infatti segnata da importanti innovazioni nell’agricoltura dell’Italia settentrionale, in particolare in Pianura Padana: si registrarono infatti studi sulla composizione del terreno, sui fertilizzanti, sullo sfruttamento intensivo e sulla rotazione delle coltivazioni, oltre a essere introdotte in modo sistematico nuove colture come il mais e le patate, alimenti a basso costo che costituiranno la base della cucina di sopravvivenza per ampie fasce di popolazione.

Focus: la saggezza antica sull’agricoltura

La qualità del terreno, l’esposizione al sole, ai venti e alle intemperie, gli uomini e gli attrezzi, le specie da coltivare e perfino la gestione delle tenute e della villa padronale. Il trattato di Marco Terenzio Varrone (116 a.C. – 27 a.C.), pur essendo composto com’era uso in forma di dialogo e di agile lettura, è un vero e proprio manuale tecnico-pratico al cui modello si rifarà l’agronomo bolognese Pier de’ Crescenzi. Il suo Ruralium Commodorum libri, prima in forma manoscritta e poi a stampa, conoscerà una diffusione ininterrotta e numerose ristampe per poi eclissarsi con la nascita dell’agricoltura di stampo moderno.

Marco Terenzio Varro, Dell’agricoltura, ed. 1851

Primieramente… l’agricoltura non solo è un’arte, ma ancora un’arte necessaria e molto estesa: e dessa è la scienza di quelle cose ché noi dobbiamo seminare, e di quello ch’è da farsi in qualunque terreno, e che dimostra da qual terra noi possiamo trarre più copiosi frutti.[….] Io considero i molti libri che ha composti Teofrasto, e che sono intitolati della Storia delle piante  e delle Cause della vegetazione. Questi libri… sono più utili per quelli che frequentano le scuole dei filosofi, che per chi vuole coltivare la terra.

Focus: l’olivo, la vite. La coltivazione nel Rinascimento

Alamanni, Ruccellai, Tansillo, Baldi, Didascalici del secolo XVI, Venezia 1786

Da giovane, all’epoca della frequentazione degli Orti Oricellari, giardino fiorentino rinomato per essere la sede di incontri culturali tra personalità letterarie di stampo classicheggiante, Luigi Alamanni (1495 – 1556) e alcuni suoi compagni tentarono una congiura contro i Medici, evento che portò l’autore a scappare da Firenze. Nonostante una serie di spostamenti nel corso degli anni tra l’Italia e la Francia, Alamanni trovò un rifugio sicuro alla corte francese, dove venne insignito di cariche e di responsabilità dalla famiglia reale di Francesco I.

Didascalici del secolo XVI è una raccolta di quattro poemi scritti nel corso del Cinquecento da autori italiani. Il volume si apre con il testo più corposo, il Della coltivazione (1546) del “gentiluomo” e letterato fiorentino Luigi Alamanni, che lo dedica al re francese Francesco I di Valois. Il poema in verso sciolti è suddiviso in 6 libri e illustra, a seconda dei passaggi in modo più tecnico o più letterario, alcune tecniche per coltivare specie vegetali dimostrando una conoscenza approfondita del tema.

Dall’intonazione poetica e dai numerosi riferimenti alla storia della Roma repubblicana e della mitologia classica si deduce che il testo sia un omaggio a un pubblico di alta estrazione sociale e di cultura classica, piuttosto che una guida pratica per un contadino.

Luigi Alamanni

L’aspra lappola vil, l’inutil felce
l’importuna gramigna, e l’impio rogo,
pria ch’il nascente fior si volga in seme,
[…] non gli soccorra allor; che tutto nuoce;
né si deggion crollar da parte alcuna.
Preghi divoto pur Eolo e Giunone,
che ritenghin lassù la pioggia e ‘l vento.

4. I laboratori del libero pensiero scientifico

Barbolini F., Al naturalista Bonaventura Corti rettore del Collegio S. Carlo in Modena nel 1777, [1882?]

Scrive intanto la Scienza in dotte carte
Le conquiste del ver, che son la gloria
D’illustri antichi, e luce
Che a nobil meta i figli lor conduce

Un ulteriore passo avanti nel controllo dell’agricoltura su vasta scala fu effettuato da sovrani illuminati come Francesco III d’Este. Il duca commissionò a Bonaventura Corti uno studio sulla malattia del grano in erba, un problema legato alla presenza di un parassita che poteva compromettere interi raccolti con ricadute notevoli sull’economia e sulla popolazione.

Corti affrontò il problema con metodo, studiando l’evoluzione del parassita per un anno al fine di individuare le variabili atmosferiche e metereologiche, il periodo e lo stadio di sviluppo del grano e del parassita. Ne risultò un’opera di prevenzione solida, applicabile su vasta scala, che poggiava su studi metodici e sulle scoperte possibili grazie ai microscopi.

Eppure lo stesso Corti continuerà a chiamare questi parassiti “animaluzzi”, una resistenza alla classificazione razionale che rende conto delle difficoltà di chi si trovava combattuto fra consuetudini antiche e scienza sperimentale.

Bonaventura Corti, Osservazioni microscopiche sulla tremella, 1774

Bonaventura Corti, come gli altri scienziati con cui si confrontava in Italia e all’estero – a partire da Lazzaro Spallanzani – era parte di una nuova generazione di studiosi che sempre più si riconosceva nelle Accademie, luoghi d’elezione del pensiero sperimentale.

Elementi d’agricoltura di Lodovico Mitterpacher di Mitternburg, 1784

Ma se utili furono all’agricoltura gli studi di private persone, molto più le giovarono le Accademie e Società agrarie ed economiche, le quali, talora per consiglio ed unanime convenzione di generosi e colti amatori della pubblica utilità, e più sovente per sovrano decreto instituite, divennero i depositi dei lumi che le ricchezze d’una nazione promovono; e coll’opera degli Accademici, colla corrispondenza letteraria, e col proporre de’ quesiti, e distribuire de’ premi, vanno tutto dì aumentando la massa delle cognizioni che l’agricoltura riguardano, escludono gli antichi pregiudizi, sgombrano i mali dell’ignoranza e della superstizione, introducono, traendoli da lontani paesi, nuovi prodotti, e i principi fissano a norma de’ quali dirigere le operazioni georgiche

Le Accademie si configurarono come istituzioni fondamentali: lontane dalle rigidità imposte da alcune scuole universitarie, in esse si trovò spazio per la discussione aperta, per un confronto libero sulle nuove scoperte e su approcci differenti alle materie scientifiche. Grazie a queste istituzioni molti sguardi innovativi ebbero possibilità di esprimersi e trovarono terreno di confronto.

Non solo: le Accademie permisero che alla cerchia ristretta e, fino a quel momento, esclusiva di coloro che si accostavano alla ricerca scientifica si unissero anche gli studiosi di estrazione borghese. A costoro tuttavia si ponevano problemi noti anche ai ricercatori odierni: il tempo per la ricerca, da ricavare negli spazi lasciati liberi dall’impiego, e, naturalmente, la necessità di procurarsi un finanziatore, un supporto economico per condurre gli studi.

5. Il lavoro dei campi fra XIX e XX secolo

Con la rivoluzione industriale in Inghilterra e, a seguire, negli altri paesi si affacciarono nuove sfide per coloro che si occupavano dell’organizzazione del mondo agricolo. Lo scenario inedito che si presentava era il progressivo abbandono del lavoro dei campi da parte di coloro che si spostavano nelle città e nelle zone industrializzate.

Questo fenomeno di massa portò ad un duplice problema: la carenza di manodopera nel mondo agricolo e, al tempo stesso, il necessario aumento di produzione dovuto all’incremento demografico. Domande che richiesero un profondo ripensamento, come racconta Mauro Ambrosoli:

Mauro Ambrosoli, Scienziati, contadini e proprietari. Botanica e agricoltura nell’Europa occidentale, 1350-1850La crescita dell’agricoltura e della botanica sono strettamente collegate, in quanto un piano generale di utilizzazione delle piante selvatiche e coltivate è stato il fattore che permise di superare l’impasse tardo-medievale, quando la maggiore offerta di terreni abbandonati era stata colmata in più parti dall’allevamento estensivo depauperante. Non a caso la storia del paesaggio agrario italiano testimonia grandi opere di sistemazione dei terreni, recupero e difesa del suolo proprio dai primi decenni del Quattrocento contro l’ubiquità degli ovini. E la situazione del paesaggio italiano si ripropone altrove, nella Provenza o nell’Inghilterra dei campi aperti, dove le precoci recinzioni dell’epoca Tudor rappresentano anche una prima divisione tra cerealicoltura e pascoli per l’allevamento.

6. Un approccio diverso: dalla tradizione all’istruzione

Diventava imperativo istruire le persone: la divulgazione scientifica ha radici lontane. Anche per quanto riguarda il mondo agrario si registrano due tipi di interventi diversi che tendono proprio alla maggiore conoscenza dell’organizzazione del lavoro dei campi: nel contesto cittadino modenese le lezioni dell’Università popolare, direttamente nei campi le “cattedre ambulanti“.

Giuliano Pancaldi (Professore di Storia delle scienze e delle tecniche – Università di Bologna), Un sapere sociale. Progresso, scienze e tecniche tra Settecento e Ottocento, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 4 novembre 2016

Le lezioni sull’agricoltura della modenese Università popolare, istituzione nata in Modena nel 1901, furono tenute prevalentemente dal professor Antonio Marozzi, agronomo e politico italiano.

I temi delle sue conferenze, ospitate a partire dal 1905 nella Sala Grande del Collegio San Carlo, furono registrati dal ragioniere del Collegio, Pietro Costa Giani, che tenne un diario degli eventi occorsi nel Collegio stesso e in Modena fra il 1887 e il 1919. Dalle pagine delle sue cronache sappiamo che il professor Marozzi intervenne a più riprese nel decennio 1906-1915.

In filigrana, nello scorrere gli anni e il succedersi delle lezioni, il cambiamento dei tempi è registrato nel cambiamento dei temi: l’ultima, nel marzo del 1915, affronta il tema dell’alimentazione in relazione alla guerra.

Focus: Antonio Marozzi e le lezioni dell’Università popolare

Università popolare lezione II (Pietro Costa Giani, Memorie del Collegio, pp. 68-69)

Il pane, la carne e gli agricoltori.

13 dicembre 1910 – Ieri sera il professore Antonio Marozzi, direttore della cattedra ambulante di agricoltura per la provincia di Modena, teneva la sua prima lezione sull’argomento Il pane, la carne e gli agricoltori. Esaminate le cause, ed indagati quali siano i rimedi migliori da opporsi al crescere del prezzo dei generi di prima necessità, quali il pane e la carne, il lettore compiva la sua lezione concludendo 1° che il progresso agrario dovrebbe tendere a rendere le terre così produttrici da eliminare quanto più è possibile la importazione dei grani, ciò che porterebbe di conseguenza ad annullare il cespite dei dazi relativi, primi fra le cause dell’elevamento dei prezzi del pane. 2° che, considerato che la carne è quasi da ritenersi un prodotto secondario nella regione Emiliana, ora quasi specializzato nella produzione del latte e delle bestie da lavoro, gli agricoltori dovrebbero occuparsi dell’allevamento della razza bovina in modo speciale rendendolo più intenso, onde avere maggior quantità di bestiame da vendere e sviluppando tale industria più intensamente essendo la qualità della carne del bestiame emiliano superiore a quello delle altre regioni italiche. Il Chiarissimo professore alla fine della sua lezione era applauditissimo dal scelto uditorio.

M. J. Girardin, Chimie générale et appliquée, 1869

Università popolare lezione III (Pietro Costa Giani, Memorie del Collegio, pp. 69-70)

I lavoratori dei campi e il benessere generale

17 dicembre 1910 – Il prof. Marozzi teneva ieri sera la sua seconda lezione sul tema I lavoratori dei campi e il benessere generale esaminando dal punto di vista il problema economico ed agricolo, e si trattenneva a parlare, con vera competenza, del livello intellettuale delle nostre classi lavoratrici che oggi, accanto al tradizionale e naturale buon senso, non accoppiano che una deficiente istruzione. Dava risalto alla insufficienza pratica delle nostre scuole di perfezionamento agrario che non rispondono agli effetti per cui furono istituite, e discorrendo delle organizzazione economiche lamentava vivamente che esse abbiano trascurato il miglioramento intellettuale degli operai. Trattava poscia del problema economico criticandone acerbamente la soluzione data dalle organizzazioni economiche, le quali, partendo dal principio che ad una maggiore esibizione di lavoro debba corrispondere una maggiore offerta di mercede da parte dell’imprenditore, fecero sì che il lavoro, notevolmente ripartito, limitasse la produzione della ricchezza, vera fonte di ben essere. Premesso quindi che il reddito della proprietà agricola è proporzione all’attività dei singoli lavoratori terminava augurandosi 1° che si favorisca l’istruzione delle classi lavoratrici: 2° che si faciliti la formazione della mezzadria e della piccola affittanza. Il conferenziere veniva vivamente applaudito dal numeroso concorso degli intervenuti.

Università popolare lezione XXI  (Pietro Costa Giani, Memorie del Collegio, pp. 338-339)

La storia dell’agricoltura

27 Aprile 1914 – Ieri sera il prof. Antonio Marozzi, valoroso ed apprezzato direttore della Cattedra Ambulante Provinciale di Agricoltura per la provincia di Modena, teneva la sua conferenza sul tema La storia dell’agricoltura. Egli cominciava col ricordare l’opera principe di Gabriele Ropa che però non è né troppo conosciuta, né troppo diffusa perché assai vasta e complessa. Rammentava che uno scrittore cinese del XXV° secolo avanti Cristo disse e illustrò il principio “l’agricoltura è nata dalla pietà filiale” e così l’agricoltura è anche la madre dell’amor di patria, della storia dei popoli e della civiltà. Raccontava che i riti di tutte le religioni presso i Fenici, i Persiani, gli Egiziani, i Greci, i Romani, ebbero il carattere di dare importanza esteriore alle cose più vantaggiose o più dannose, principalmente nel campo dell’agricoltura. Leggende e divinità orientali e mitologiche confermano questo fatto; così Prometeo sarebbe stato il primo ad aggiogare i buoi; così Zoroastro, Iside, Dionisio, Bacco, Saturno ebbero nei fasti dell’agricoltura da essi impersonata una delle principali cause per la propria adorazione. La Genesi che è forse il più antico libro che ci sia stato tramandato, attribuisce a Caino la funzione di coltivatore di terra ed ad Abele quella di pastore di gregge. Aggiungeva che l’agricoltura sorse principalmente in riva e alle foci dei fiumi. Il Nilo, il Tigri, l’Eufrate, il Gange, il fiume Giallo furono le culle delle prime civiltà, l’egiziana, l’assira, la babilonese, l’indù e la cinese, e narrava come Erodoto diche che gli egiziani usassero inondare periodicamente il loro paese tagliando gli argini del Nilo, le cui acque torbide e limose fecondavano mirabilmente il terreno.  Dagli Egiziani l’arte della coltivazione passò via via agli Ebrei, ai Caldei, agli Assiri, agli Arabi, ai Greci e finalmente ai Latini nel bacino mediterraneo, donde si diffuse in tutta Europa.

La letteratura georgica ebbe tra i suoi cultori i maggiori scrittori dell’antichità: Esiodo, Omero, Senofonte, Catone, Varrone, Virgilio. E quando a Roma accennò a decadere per l’abbandono dell’agricoltura, Columella insorse con parole violente contro i suoi concittadini prevedendo con profetica visione la rovina dell’Impero. Verificatosi questa, le tenebre del medio evo calarono sulla civiltà mediterranea e l’agricoltura fu completamente abbandonata.

Traverso agli orrori di quel epoca le comunità religiose, come salvarono la tradizione della coltura letteraria e storica, così anche conservano il culto dell’agricoltura, da essi mantenuta in onore col concorso dei vassalli, originando le così dette Partecipanze. Montecassino e Nonantola ne sono esempi luminosi. Nel seicento l’agricoltura risorse, pur senza superare l’antica, finché nel 1850, per impulso datole dagli studi del Von Liebig, che scoprì la teoria dell’evoluzione delle piante, si avviò verso un grande progresso che ebbe sempre maggior incremento per le nuove invenzioni e scoperte e per le applicazioni della chimica e delle scienze. Il prof. Marozzi, dopo avere così tratteggiata a grandi linee la storia dell’agricoltura, concludeva la sua conferenza affermando la necessità che l’Italia comprenda che la sua forza e la sua potenza sono nella terra, che ad essa è legata la sua ascensione. Alla fine del suo dire il professore veniva vivamente applaudito da numeroso e attentissimo uditorio.

Poli A., Tanfani E., Botanica ad uso delle scuole classiche, 1891

Università popolare lezione XVIII (Pietro Costa Giani, Memorie del Collegio, pp. 394-396)

Sull’alimentazione in relazione alla guerra

9 Marzo 1915 – Ieri sera il prof. Antonio Marozzi, direttore della cattedra ambulante agricola teneva la sua lezione  Sull’alimentazione in relazione alla guerra. L’oratore esaminava brevemente il movimento commerciale generale dell’Italia, il quale presenta un deficit di un miliardo circa fra l’esportazione e l’importazione; differenza questa che viene largamente colmata da due immensi cespiti di guadagno: dall’emigrazione e dal movimento dei forestieri.

Per quanto riguarda i generi alimentari e gli animali vivi l’esportazione supera l’importazione di 59 milioni di lire, e si togliesse il grano (che è uno dei pochi prodotti alimentari che a noi mancano) l’esportazione supererebbe l’importazione di 445 milioni di lire. Questo vuol dire, purtroppo, che noi importiamo del grano per quasi 385 milioni. All’importazione del frumento e del grano turco possiamo contrapporre una rimarchevole esportazione di altri prodotti come riso, castagne, patate, ortaggi, frutta fresche e secche, animali bovini, suini, carni salate ecc. Il pollame e le uova costituiscono per noi una fonte di immensa ricchezza ignorata: si pensi che il loro commercio interno assume il valore di 250 milioni con un’esportazione di 45 milioni di lire! Francamente si potrebbe fare qualche cosa di più per un’industria come questa e non lasciarla in custodia unicamente alle massaie che la devono difendere dall’odio del padrone e dalla noncuranza dei contadini.

Il punto debole della nostra produzione è il frumento, e ciò è grave, poiché se nelle famiglie agiate il pane entra nel bilancio d’alimentazione in dose del 10-12 per %, nel popolo raggiunge il 60 per % costituendo la base del nutrimento. Noi produciamo milioni 42.3 di quintali di grano e per sopperire al nostro consumo bisogna ne importiamo altri milioni 10.9 di quintali, in altri termini manca 26.4 p % di frumento. A questo punto il prof. Marozzi passava in rassegna la produzione mondiale di questo prodotto mettendo in evidenza le nazioni che colmavano, in tempi normali, il nostro deficit e quelle che attualmente, non sono più in grado di farlo. L’unica che può ancora fornire grano è l’Argentina che di solito esporta 25 milioni di quintali, ma che quest0anno, dato l’eccezionale raccolto può arrivare a 32 milioni.

Accennava l’oratore che dobbiamo tener presente che non è l’Italia sola ad aver bisogno di grano e che il concorso per appropriarsi una parte della detta sovraproduzione argentina sarà enorme ed aggravato dalla difficoltà dei trasporti, quindi non è improbabile che a noi venga a mancare una parte del fabbisogno. Osservava perciò che due sono i modi per ovviare tale inconveniente: produrre di più e consumare meno, e dimostrava che produrre di più + cosa facile a dirsi ma difficile nell’attuazione pratica a meno di rinunciare a colture altamente rimunerative e pur necessarie come sono quelle di piante industriali ed invadere zone dedicate ai prati artificiali in relazione queste colla produzione della carne, del latte ecc., generi anche questi di prima necessità. Rimane tuttavia una categoria di terreni che potrebbe essere adibita alla estensivazione della cultura del frumento ed è quella dei terreni seminativi a riposo: terreni questi sui quali non può essere fatto grande assegnamento, perché il fatto stesso di essere messi a risposo dimostra chiaramente la loro scarsa potenza produttiva o la mancanza dei mezzi per la loro messa a coltura.

Fare maggiore economia di frumento: solamente in quest’ordine di idee troveremo la soluzione pratica del problema che tanto ci affligge e ci preoccupa. A questo punto l’oratore accennava al recente decreto del pane unico, e si meravigliava come non sia stata presa prima una disposizione così provvida che ci condurrà ad una maggiore utilizzazione del frumento in ragione quasi del 20 p%. L’aumento della produzione, l’uso comune del pane integrale ed il divieto di usare per l’alimentazione degli animali grassi (?) atti all’alimentazione umana, potrebbero far sì di bilanciare la produzione col consumo.

Nel 1913 si ebbe il massimo raccolto (58 milioni di quintali) accompagnato dalla massima importazione (17 milioni di quintali): fatta questa premessa il Conferenziere deduceva che, almeno per la presente annata, del grano in Italia non ne deve mancare, ma allora perché, diceva, i prezzi aumentano? e rispondeva che la causa di questo deve cercarsi non nella quantità, ma nella distribuzione del prodotto.

L’oratore terminava augurando che nella parsimonia individuale e nella sapiente applicazione di disposizioni legislative, tendenti ad impedire ingorde speculazioni od accumulazioni di prodotto, si trovi quell’energia atta a risolvere felicemente questo problema che potrebbe, se trascurato, tornare disastroso per la nazione.

La fine della bella ed utile conferenza veniva salutata da un applauso generale e l’oratore riceveva numerosissime felicitazioni.