Thalassa! Thalassa! La Grecia antica, i viaggi e l’incontro con l’altro
Le popolazioni primitive avevano abitudini nomadi. La stanzialità è divenuta possibile grazie all’acquisizione di conoscenze rispetto ai modi di addomesticare la natura e l’ambiente, ma l’idea di spostamento – per sussistenza, per curiosità, per obiettivi specifici – è rimasta nella natura umana.
Volendo circoscrivere l’ambito di ricerca alle rotte interne al Mediterraneo, o aperte e percorse a partire dai paesi che ne disegnano le coste, e analizzando le fonti emerge che almeno queste tre motivazioni, e probabilmente molte altre, si intrecciano in continuazione.
Per varietà e consistenza delle fonti, per la combinazione delle conoscenze in ambito navale con la cultura che fu culla della prima idea di geografia (da Anassimandro e la scuola di Mileto in poi, se le ricostruzioni sono corrette, ma a questo proposito esiste una nutrita letteratura) la Grecia e le sue colonie dell’Asia Minore costituiscono due punti nodali per costruire l’idea moderna di viaggio (so come muovermi, inizio a definire la terra di cui esploro le coste). Non gli unici, tuttavia: il confine delle terre esplorate tendeva verso Oriente via terra e, via mare, non si fermava certo alle Colonne d’Ercole.
A prescindere da ciò che porta e ha sempre portato una persona ad allontanarsi volontariamente dal luogo che chiama casa, i resoconti dei primi esploratori rendono chiaro che da allora e per molto tempo ancora, come in parte ancora oggi, il viaggio comporta l’idea di una persona – o di una comitiva, una spedizione, un esercito – che si sposta sfruttando le vie naturali (fiumi, mari, valli, passi montani…). Ma ciò è possibile se si posseggono gli strumenti adatti per addomesticare queste stesse vie e la natura che le caratterizza. Ancora una volta, per comprenderla nell’orizzonte umano.
Poiché le fonti greche sono le più corpose e costituiscono ancora oggi delle vere pietre miliari dal punto di vista della letteratura, sia storica sia geografica, è ad esse che si può fare riferimento. Dai viaggi degli antichi greci emerge un carattere proprio del viaggio di scoperta: la geografia in Erodoto, come in Pausania, non è mai scissa dalla storia perché un luogo è caratterizzato anche dal popolo che lo abita, esattamente come il popolo che abita un luogo ne è forgiato e impregnato, e plasma le sue abitudini a seconda della natura, delle possibilità, delle caratteristiche fisiche e climatiche della terra che occupa.
Dunque spostarsi e conoscere nuove terre comporta anche la conoscenza e l’incontro con l’altro, che si sia stranieri in terre lontane o che si accolga lo straniero a casa: uno dei caratteri della cultura greca è il dovere dell’accoglienza – anche se non per tutti, non tra tutti.
1. Tucidide: l’identità definita dall’altro
Tucidide (460 a.C. circa – dopo il 404) ci porta alle origini, alle radici della civiltà greca.
Appartenente alla facoltosa aristocrazia ateniese, ha lasciato diverse informazioni sulla sua vita nelle pagine della sua opera principale, La Guerra del Peloponneso, che lo ha reso celebre come uno dei padri del metodo storico. Tuttavia, a differenza di Erodoto, che presenterà più versioni dello stesso fatto o dello stesso aneddoto, Tucidide riporta sempre e solo la versione che gli sembra più verosimile fra le testimonianze raccolte. Un metodo che, naturalmente, comporta dei rischi, perché toglie allo studioso moderno la possibilità di verificare le varie versioni alle quali ha attinto lo scrittore antico.
Tucidide, mosaico da Jerash (Giordania), III sec. – Berlino, Pergamon Museum
1.1 L’ “Archeologia” della storia greca
La guerra del Peloponneso, I, 22
Ho ritenuto mio dovere descrivere le azioni compiute in questa guerra non sulla base di elementi d’informazione ricevuti dal primo che incontrassi per via; né come paresse a me … ma analizzando con infinita cura e precisione, naturalmente nei confini del possibile, ogni particolare dei fatti cui avessi di persona assistito, o che altri mi avessero riportato. Laboriosa e complessa indagine: poiché le memorie di quanti intervennero in una stessa azione, non coincidono mai sulle medesime circostanze e sfumature di quella.
Il tema degli otto libri è la guerra combattuta fra il 431 e il 404 a.C. fra Atene e Sparta, “grande e la più memorabile rispetto a tutte le precedenti” (I, 1), e conclusasi con la vittoria di quest’ultima. Come premessa, nel primo capitolo chiamato Archaiologhia l’autore racconta cosa portò alla nascita di ciò che si può chiamare “greco”. Ne emerge un affresco di genti antiche in costante movimento, tribù seminomadi in continuo conflitto per le terre più fertili, villaggi senza mura e perciò sempre minacciati.
La guerra del Peloponneso, I, 2
E risulta infatti evidente che la terra chiamata ai nostri giorni Grecia non era in tempi antichi abitata stabilmente, ma in principio vi si succedevano migrazioni e le singole genti, premute da popoli di volta in volta più numerosi, abbandonavano con facilità le loro sedi.
1.2 Pirati
Fra le forme di “sostentamento ai più deboli” viene citata la pirateria, sviluppatasi in contemporanea, secondo Tucidide, all’intensificarsi dei traffici e dei commerci marittimi nel Mediterraneo e socialmente accettata:
La guerra del Peloponneso, I, 5
Giacchè anticamente i Greci e quei barbari che abitavano lungo le coste o nelle isole, […], si volsero alla pirateria: li comandavano individui non certo dei meno influenti animati sia dal fine del proprio lucro sia dal proposito di dare sostentamento ai più deboli: piombando su città sguarnite di mura e costituite di vari agglomerati sparsi in forma di villaggi, le devastavano e così per larga parte si sostentavano. […]
Una tale pratica non recava vergogna, anzi, piuttosto buon nome, com’è chiaro ancora oggi presso alcune popolazioni del continente, per le quali è motivo di merito svolgere abilmente tali attività; e lo dimostrano chiaramente gli antichi poeti, presso i quali è normale far chiedere ai naviganti se siano pirati – ed è chiaro che né chi si sente rivolgere quella domanda ritiene indegna quella attività né chi pone la domanda intende offendere. E anche per terra si depredavano reciprocamente con atti di brigantaggio […]
Consuetudine, questa, che determinava anche alcune abitudini del vivere quotidiano:
La guerra del Peloponneso, I, 5-6
Del resto fino all’età nostra molte zone dell’Ellade hanno serbato gli antichi costumi: in Locride Ozolia, in Etolia, in Acarnania e nel continente circostante. Per esempio, il costume di andare in giro armati è rimasto, tra queste popolazioni, proprio in conseguenza dell’antico brigantaggio.
Anticamente infatti il costume di andare in giro armati vigeva in tutta la Grecia appunto a causa delle abitazioni indifese e dei contatti poco sicuri: donde l’abitudine di vivere armati come i barbari. Dunque queste regioni del mondo greco dove tali costumi durano ancora, sono la traccia di un’epoca precedente in cui tali costumi erano diffusi universalmente.
Fra le popolazioni dalle quali nacquero ciò che noi abitualmente intendiamo come “Greci” il popolo della Ftiotide di Achille viene indicato come il primo nucleo di genti chiamate achee o greche. Fu da qui che, per necessità, ai tempi delle guerre raccontate da Omero, si avviò un dialogo con le altre tribù avviato non dal tradimento della bella Elena ma, più verosimilmente, dalla minaccia dell’espansione commerciale troiana: popoli in perenne conflitto si riunirono sotto il nome unico di Elleni per far fronte ad un nemico comune e potente, si riconobbero in un’identità per necessità di contrapposizione.
1.3 La questione attica
Fra essi, spicca fin da subito nella ricostruzione di Tucidide il popolo dell’Attica:
La guerra del Peloponneso, I, 3
L’Attica invece l’abitò sempre la stessa gente: proprio perché da più gran tempo che altre regioni fu esente da conflitti, in virtù della scarsa fertilità della terra. Prova ne sia il fatto che le migrazioni non determinarono altrove così come in Attica un incremento della popolazione.
E’ nelle pieghe di queste affermazioni che l’abilità dello storico china il capo alla leggenda e a forzature che ritroviamo, con gli stessi tratti, anche altrove: omaggi alle tradizioni che dovevano suonare naturali per l’epoca, dai quali tuttavia dipesero conseguenze all’epoca inimmaginabili. La presunta “purezza di sangue” degli Ateniesi, dovuta secondo Tucidide alla povertà dell’Attica che avrebbe scoraggiato eventuali popoli aggressori dall’invaderla, è una “patente di qualità” che torna nei miti di diverse culture, dagli Sciti agli Egizi, dagli Slavi agli Scandinavi, fino ad arrivare ad uno dei testi più “pericolosi” del mondo antico, la Germania di Tacito, che abbiamo analizzato in dettaglio.
- Tucidide, Thoukydidou Peri tou Peloponnesiakou polemou biblia 8. Thucydidis De bello Peloponnesiaco libri 8. Iidem Latine, ex interpretatione Laurentii Vallae, ab Henrico Stephano recognita, 1588
- Luciano Canfora (a cura di), Tucidide – La Guerra del Peloponneso, 1996
- Klaus Meister, La storiografia greca, 2004
- Seth Jaffe, Thucydides and Polybius. Between Political Philosophy and Ancient Historiography, Fondazione Collegio San Carlo, Scuola di Alti Studi, 2-5 maggio 2022 (con bibliografia e sitografia)
- Mauro Bonazzi, Il nazismo, l’antichità, l’Europa, in “Il Mulino. Rivista mensile di attualità e cultura”, n. 3, 2018, pp. 496-501
2. Senofonte. L’altra odissea
Senofonte (Atene, 430-354 a.C. circa), storico greco, fu discepolo di Socrate senza tuttavia avere una reale disposizione per la filosofia.
E’ autore di molte opere, giunte incredibilmente complete ai nostri giorni. Fra di esse si contano le “Elleniche”, nella quale narra le vicende dei Greci dal 411, ovvero da quando si interrompe la narrazione di Tucidide, al 362, quando ebbe luogo la battaglia di Mantinea.
Lo scritto che più degli altri ci porta ad accompagnare Senofonte in un viaggio è tuttavia l’ “Anabasi”.
Scritta dopo il 401, questa lettura, ancora oggi piena di fascino e tessuta con un ritmo narrativo straordinario, racconta della spedizione degli opliti ateniesi al seguito di Ciro il Giovane contro Artaserse, una vicenda divenuta “L’armata perduta” nel titolo di una riscrittura letteraria contemporanea.
2.1 Verso Oriente
Queste le vicende. Ciro il Giovane, figlio di Dario II imperatore dei persiani, poco dopo la morte di quest’ultimo avvenuta nel 404 a.C. decide di radunare un grande esercito e muovere verso Babilonia per reclamare la corona di Re dei Re per sé, forte dell’appoggio della madre Parisatide, per contrastare la nomina del fratello maggiore Artaserse II come erede al trono. Raduna così un grande esercito composto, fra gli altri, da circa diecimila mercenari greci (12900 secondo Senofonte), che si aggiungono come punta di diamante al suo esercito personale e ad un numero imprecisato di “barbari”. Senofonte, su invito dell’amico Prosseno, si unisce alla spedizione.
Secondo il racconto, inizialmente Ciro convoca e assolda questi soldati per sedare alcune rivolte di popolazioni locali in Tracia e poi in Asia Minore. Man mano che si addentrano nelle terre dell’odierna Turchia, diretti verso la Siria, altri corpi e altri comandanti si aggiungono alla spedizione e la rotta, così come le dimensioni che questo esercito sta assumendo, rendono chiaro a tutti le vere intenzioni di Ciro. I Diecimila, nonostante le premesse ingannevoli e l’alto rischio, dopo molte discussioni e la promessa di una paga più in linea con il rischio dell’impresa, decidono comunque di proseguire verso Babilonia.
2.2 Uniforme come il mare
Il viaggio, fino alla battaglia di Cunassa, è vissuto in un clima di generale tranquillità. Senofonte si attarda nella descrizione dei luoghi che lui e i suoi compagni vedono durante il loro cammino e ci riporta descrizioni e aneddoti, come la scena dei cavalieri che provano a cacciare, senza successo, gli struzzi trovati sul posto. Dovendo descrivere il nuovo usa le parole della cultura greca: per far comprendere ai lettori ciò che vede parte da quanto tutti i greci hanno negli occhi, ovvero il mare. Il deserto viene descritto “uniforme come il mare” e gli struzzi utilizzano le ali “come vele”.
Anabasi, I, 5, 1-3
Da lì Ciro si inoltra verso l’Arabia [la Siria, n.d.r], tenendo l’Eufrate sulla destra e percorrendo in cinque tappe trenta parasanghe [5940 m. secondo Senofonte]. In quella regione il terreno era assolutamente pianeggiante, uniforme come il mare, e pieno di assenzio; ogni altra pianta o canna che vi crescesse era profumata come le piante aromatiche. Non vi erano però alberi. Vi erano invece moltissimi animali di ogni specie: in particolare moltissimi asini selvatici e molti struzzi: inoltre otarde e gazzelle. […] Nessuno … riuscì a prendere uno struzzo: i cavalieri che si lanciavano all’inseguimento ben presto desistevano perchè l’animale, mentre fuggiva, guadagnava molto terreno, sia correndo con le zampe che sollevandosi per mezzo delle ali, che usava come vele. […]
In questo lungo cammino d’avvicinamento alla battaglia si affina l’interesse dell’autore per i luoghi, i dettagli, le caratteristiche dei paesi e le usanze delle popolazioni che incontra sul proprio cammino.
Anabasi, I, 2, 22-23
[…] Ciro dunque riuscì a salire sui monti senza incontrare nessuna resistenza e vide le tende dove i Cilici avevano montato la guardia. Quindi discese in una pianura ampia, bella e ricca d’acqua, piena di alberi di ogni specie e di viti; produce molto sesamo e miglio e panìco e frumento e orzo. La circonda tutto intorno una catena di montagne impervie ed elevate, che si estende fino al mare da entrambe le parti
Anabasi, I, 4, 9-10
In seguito Ciro percorre in quattro tappe venti parasanghe fino al fiume Calo, largo un pletro [29.5 m. nel sistema attico] e pieno di grossi pesci inoffensivi: I Siri li consideravano divinità e non permettevano che si facesse loro alcun male, come del resto alle colombe
Quando Ciro e la spedizione passano per la Cilicia (la parte più a sud-est della penisola anatolica), incontrano la curiosa regina del luogo:
Anabasi, I, 2, 14-19
[…] Da lì, in due tappe, Ciro avanza di dieci parasanghe fino a Tirieo, città popolosa, dove si fermò tre giorni. La regina dei Cilici, a quanto si racconta, gli pregò di mostrarle l’esercito: Ciro, per soddisfare questa sua richiesta, passò in rassegna nella pianura le truppe greche e barbare. Ordinò ai Greci di schierarsi come erano soliti fare in vista di una battaglia, e ingiunse a ciascun comandante di disporre i propri uomini in ordine di combattimento. […] Tutti portavano elmi di bronzo , tuniche rosse, schinieri e scudi senza fodero. Terminata la rassegna, Ciro fermò il suo carro al centro della falange e inviò il suo interprete Pigrete presso gli strateghi dei Greci per ordinare che l’intera falange andasse all’attacco protendendo le armi. Gli strateghi comunicarono l’ordine ai soldati: Non appena squillò la tromba, essi avanzarono con le armi protese. Quindi si mossero più rapidamente, levando grandi grida, e spontaneamente si misero a correre verso le tende, provocando il panico tra i barbari. La regina dei Cilici fuggì con la sua carrozza, e i venditori del mercato, abbandonando le loro mercanzie, scapparono anche loro. I Greci invece arrivarono alle tende ridendo. La regina dei Cilici rimase piena di meraviglia per lo splendore e l’organizzazione dell’esercito e Ciro fu ben contento di vedere il terrore che i Greci avevano suscitato nei barbari.
2.3 Tra Cunassa e Trapezunte: l’odissea di Senofonte
Artaserse schiera un esercito imponente, al punto che le truppe di Ciro non riescono a coprire in larghezza che una parte del fronte nemico. La narrazione di Senofonte si fa asciutta mentre descrive lo scontro e le truppe dei vari comandanti disperse in questo campo sterminato, ignare l’una della sorte dell’altra per l’intera giornata.
Ciro il giovane viene ucciso.
I greci rifiutano di consegnare le armi ad Artaserse vittorioso, non fidandosi della sua promessa di lasciarli tornare pacificamente in patria. Così cercano da soli la strada, e la narrazione diventa la cronaca di una odissea.
Inseguiti mentre marciano verso nord lungo la piana della Mesopotamia, traditi da Tissaferne che decapita la catena di comando uccidendo strateghi e locaghi, si inoltrano nei territori sconosciuti dell’entroterra persiano. Senza più i primi e più esperti comandanti, senza paga e senza obiettivo se non quello di tornare a casa, Senofonte e i suoi compagni attraversano gli insediamenti di sudditi del Re dei Re ostili a questa colonna di soldati comunque armati e preparati; braccati dai fedeli di Artaserse, attaccati sui fianchi e minacciati dalle imboscate e dalla guerriglia delle popolazioni montane, i Diecimila risalgono caparbiamente fino alle sorgenti del Tigri per attraversare l’Armenia cercando di raggiungere la città di Trapezunte, sul Mar Nero, da dove poi tornare in patria via nave.
Anabasi, IV, 1, 9-11
I Carduchi, comunque, non prestarono ascolto agli appelli dei Greci e non mostrarono alcun segno di amicizia. Nel momento in cui gli ultimi Greci scendevano dalla cima del monte verso i villaggi, ormai al buio […] proprio allora un gruppo di Carduchi, radunatosi, attaccò la retroguardia: lanciando pietre e frecce uccisero alcuni dei Greci e ne ferirono altri, pur essendo in pochi, perché l’esercito greco era piombato nel loro paese all’improvviso
Senofonte stesso, divenuto probabilmente uno dei comandanti, percorre le file a cavallo e scrive ciò che vede di persona. Nel racconto offre una panoramica dei territori e delle popolazioni incontrate che diventa per noi, lettori moderni, una parentesi di grande interesse sia sul versante geografico che su quello etnologico: come nel libro IV dell’opera, dove viene descritto il passaggio dell’esercito in Armenia durante l’inverno:
Anabasi, IV, 5, 3-13
La terza tappa fu dura. Il vento Borea soffiava loro in faccia, bruciando completamente ogni cosa e facendo intirizzire gli uomini. […] Da lì, per tutto il giorno successivo, marciarono attraverso la neve e molti uomini furono colti da bulimia. Senofonte, al comando della retroguardia, si imbatteva in gente che stramazzava a terra e non riusciva a capire di che malattia si trattasse. […] Dunque, Chirisofo e quanti avevano avuto la forza di arrivare là, vi si accamparono, mentre gli altri soldati che non erano riusciti a percorrere tutta la strada trascorsero la notte senza cibo e senza fuoco. Alcuni di essi morirono. […] Furono abbandonati sul posto i soldati con la vista offesa dal riverbero della neve e quelli con le dita dei piedi incancrenite dal gelo
2.4 Thalassa! Thalassa!
Anabasi, IV, 7, 21-26
Il quinto giorno arrivano a un monte chiamato Teche. Allorché giunsero sulla vetta, levarono grandi grida. Nell’udirle, Senofonte e i suoi soldati della retroguardia pensarono che un altro gruppo di nemici avesse attaccato la testa della colonna: alle spalle, infatti, erano seguiti dagli uomini a cui avevano bruciato il territorio: […] Poiché le grida si facevano sempre più forti e più vicine, e i soldati che continuavano ad arrivare si precipitavano verso i compagni che continuavano a gridare, e poichè il clamore diventava tanto più forte quanto più cresceva il numero degli uomini sulla cima del monte, Senofonte ritenne che si trattasse di qualcosa di particolarmente grave. Balzò quindi a cavallo, prese con sé Licio e i cavalieri, e corse a portare aiuto: e ben presto udirono i soldati gridare: “Il mare! Il mare!”. La parola passava di bocca in bocca. Allora tutti si misero a correre, anche quelli della retroguardia, e perfino le bestie da soma e i cavalli vennero lanciati al galoppo. Quando tutti si ritrovarono sulla vetta, cominciarono, piangendo, ad abbracciarsi tra loro e con gli strateghi e i locaghi. E a un tratto, per iniziativa di non si sa chi, i soldati portano delle pietre e innalzano un grosso cumulo
La vicenda di questi soldati non è finita. Parte della spedizione passerà prima in Tracia, dove si metterà al servizio del principe Seute, e poi ritornerà verso l’Asia minore dove si metterà al servizio del generale spartano Tibrone; la narrazione di questi eventi perde la forza drammatica dell’impresa e diventa racconto delle aspirazioni, e della necessità di sopravvivenza, di migliaia di mercenari. I “Diecimila”, che probabilmente erano circa 12.900 all’inizio della spedizione (I, 7, 10), avevano subito in realtà perdite ingenti e un secondo autore, Diodoro Siculo, ridimensiona drasticamente anche il ruolo di Senofonte stesso, non citandolo affatto nell’impresa.
- Xenophontis philosophi et historici clarissimi opera, Basilea, 1545
- Le storie greche di Senofonte volgarizzate da Marcantonio Gandini, Milano 1821
- Anabasi di Senofonte, a cura di Fiorenza Bevilacqua, Torino 2002
- Storia della ritirata dei diecimille di Senofonte tradotta dal greco da Marc’Antonio Gandini, Milano 1830
Focus: le leggende degli “Immortali”
L’armata dei Diecimila è una potente macchina da guerra il cui valore leggendario viene esaltato dagli scrittori greci che ne cantano le gesta. E’ composta da opliti (da hoplon, che indica “arma” o ancor più genericamente “attrezzatura” che comprendeva anche il grande scudo rotondo a torto indicato come unica origine del nome oplita). Fanti armati pesantemente, spina dorsale degli eserciti greci e, in questo caso, perlopiù veterani della lunga guerra del Peloponneso, dopo la sconfitta di Atene faticano a reinserirsi nella vita civile e divengono, a tutti gli effetti, dei mercenari: è in questa veste – e con richieste economiche di pari grado – che scelgono di seguire Ciro.
I Diecimila cantati da Senofonte non sono l’unico caso di gruppo di soldati – non sarebbe corretto definirli “corpo” perché non nascono come tale – intorno al quale si tessono leggende, anche se l’avventura che si trovano a vivere ne alimenta la fama di immortalità. Le leggende legate a gruppi o corpi di soldati scelti, preparatissimi, fedeli e letali rimbalzano da un capo all’altro del mondo conosciuto, in Occidente come in Oriente. Questi soldati leggendari avevano una funzione ispiratrice nei confronti delle altre truppe, nonché di ago della bilancia durante la battaglia.
Ad informarci circa gli “Immortali” persiani, guardie del Re dei Re, è Erodoto (Storie, VII, 82)
Erodoto, Storie, VII, 61
Questi erano coloro che prendevano parte alla spedizione. I Persiani così equipaggiati: sulla testa avevano berretti di feltro flosci denominati ≪tiare≫, intorno al corpo tuniche fornite di maniche, di vario colore […] di piastre di ferro simili a un pesce a vedersi; intorno alle gambe portavano brache e, al posto dei normali scudi, scudi di vimini; sotto erano appese le faretre; avevano lance corte , grandi archi e frecce di canna; inoltre, pugnali lungo la coscia destra appesi alla cintura
E qualche paragrafo più avanti:
Erodoto, Storie, VII, 83
Questi diecimila Persiani scelti erano al comando di Idarne, figlio di Idarne. Costoro erano chiamati Immortali per questo motivo: se qualcuno di loro, vinto dalla morte o dalla malattia, fosse venuto a mancare dal numero, si sceglieva un altro uomo cosicché non fossero mai né più né meno di diecimila. Erano i Persiani che fra tutti facevano sfoggio del maggior lusso ed erano essi stessi i più valorosi. Il loro equipaggiamento era quale ho già descritto, e inoltre si distinguevano per ornamenti d’oro a profusione
Eppure perfino gli “Immortali” cadono alle Termopili, attirati nel tranello dallo spartano Leonida (VII, 211). Se gli Spartani acquisiscono a loro volta fama di invincibilità proprio a partire dalle guerre persiane (“erano irresistibili per fierezza e si buttavano nella mischia spaventando con la loro fama quanti si schieravano contro di loro”, Plutarco, Vita di Pelopida, §17), a minarne la supremazia, quasi un secolo più tardi, sarà un manipolo di tebani guidati da Pelopida. Dice ancora Plutarco: “Infatti la guerra che abbatté il prestigio di Sparta e mise fine al suo dominio per terra e per mare prese origine appunto da quella notte, in cui Pelopida, senza impadronirsi di un presidio o di una fortificazione o di un’acropoli, ma ritornando con altri undici in una casa privata, sciolse e spezzò – se si deve esprimere la verità per mezzo di una metafora – le catene dell’egemonia lacedemone, che si credeva di non poter sciogliere e infrangere” (Vita di Pelopida, §13).
Poiché “non era l’Eurota … a produrre uomini battaglieri e bellicosi, ma … tutti coloro presso i quali nascono giovani che sono capaci di arrossire di ciò che è turpe e di aver audacia per ciò che è nobile e … preferiscono fuggire i biasimi piuttosto che i pericoli sono molto temibili per gli avversari” (Ivi, §17) i tebani presero coraggio; decisive saranno le intuizioni di Pelopida e la potenza del cosiddetto Battaglione Sacro di Tebe. Ce lo descrive ancora Plutarco
Plutarco, Vita di Pelopida, §18
Dicono che il battaglione sacro fu costituito per la prima volta da Gorgida; era formato da trecento uomini scelti [..]. Alcuni dicono che questo battaglione era formato da giovani che si amavano tra di loro. […] §19 – Non fu affatto la passione di Laio che, come dicono i poeti, dette origine presso i Tebani alla consuetudine di amarsi tra uomini, ma furono i loro legislatori che, volendo attenuare e addolcire fin dall’infanzia la loro indole violenta e aspra, associarono frequentemente ad ogni occasione, seria e scherzosa, l’uso del flauto, riservandogli onore e privilegio; e nelle palestre diedero splendido incremento a questo tipo di amore, per temperare il carattere dei giovani.
Gorgida però aveva distribuito gli elementi del battaglione sacro “fra le prime file del fronte degli opliti e lungo tutto lo schieramento” mentre Pelopida, intuendone le ulteriori potenzialità, “non li divise né li sparpagliò più, ma nei combattimenti più importanti si espose al pericolo servendosene come se fossero un corpo unico a parte” (Plutarco, Vita di Pelopida, §18). Grazie alla sua “invincibilità”, dopo la battaglia di Tegira (375 a.C.) e poi di Leuttra (371 a.C.) prende avvio il periodo chiamato “egemonia tebana” (375 – 338 a.C.).
Saranno Filippo II di Macedonia e suo figlio Alessandro a porre fine anche a questa leggenda nella battaglia di Cheronea del 338 a.C. Sarà quest’ultimo ad avere a disposizione due corpi particolari di soldati. Gli hetairoi, (“compagni”), erano un corpo scelto composto dai migliori elementi della giovane nobiltà macedone, e, per quanto il loro numero sia stato variabile nei secoli, nell’esercito di Alessandro erano circa 1800. Erano cavalieri, armati di lunga lancia chiamata xyston e di una spada corta, indossavano una corazza leggera ma resistente che garantiva protezione senza limitare troppo le capacità di movimento del cavaliere. Il secondo battaglione d’élite viene costituito durante il viaggio di conquista di Alessandro, poco prima del suo arrivo in India. Conta circa 3000 effettivi, veterani anziani (le fonti dicono tutti tra i 60 e i 70 anni, anche se è difficile crederlo) dotati di bellissimi scudi laminati d’argento, dai quali deriverà il loro nome di argyraspides (“scudi d’argento”). Ce li descrive ancora Plutarco:
Plutarco, Vita di Eumene, §16
Essi, infatti, erano i più anziani tra i soldati di Filippo e di Alessandro, abili guerrieri mai vinti, nè battuti fino a quel momento; molti di loro erano già settantenni e nessuno aveva meno i sessant’anni
Merita una menzione a parte Ying Zheng, il Primo Augusto Imperatore di Qin, deceduto nel 210 a.C. E’ lui a volere una guardia letteralmente immortale a protezione del suo imponente parco funerario: l’esercito di terracotta, rinvenuto a partire dagli anni Settanta del Novecento, è uno dei corpus di manufatti antichi, e una delle scoperte archeologiche, più sorprendenti fino ad ora registrate. Questo straordinario esercito, se pur non troppo distante nel tempo rispetto agli “Immortali” della storia greca, e i cui guerrieri sono più grandi del naturale probabilmente per incutere rispetto e timore, è posto a guardia eterna e protezione non di una città o di una regione ma del corpo di un imperatore la cui storia e il cui dominio hanno caratteristiche profondamente differenti rispetto alle vicende delle polis greche. Per un approfondimento si rimanda senz’altro alla già nutrita bibliografia a riguardo.
- Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna 2002
- Marco Bettalli, Un mondo di ferro. La guerra nell’Antichità, 2019
- Guerre ed eserciti nell’antichità, a cura di Marco Bettalli e Giovanni Brizzi, Bologna 2019
- https://studiahumanitatispaideia.blog/2024/01/10/gli-immortali-al-servizio-del-re-dei-re/, consultato il 21 maggio 2024, con bibliografia
3. Erodoto di Alicarnasso
Erodoto, Storie, libro I, proemio
Espone qui Erodoto di Alicarnasso le sue ricerche, perché delle cose avvenute da parte degli uomini non svanisca col tempo il ricordo; né, di opere grandi e meravigliose, compiute sia da Elleni sia da Barbari, si oscuri la gloria; e narrerà fra l’altro per quale causa si siano combattuti fra loro
Storico, antropologo, viaggiatore curioso e instancabile, figlio di madre greca e padre persiano, Erodoto (484 a.C. – 425 ca. a.C.) è stato indicato da Cicerone come pater historiae.
In un mondo esplorato essenzialmente da mercanti e soldati Erodoto costituisce uno dei rari casi di viaggiatori attratti da un interesse storico-antropologico. Tracciando la narrazione di eventi bellici nel tentativo, dichiarato fin dal proemio, di comprendere l’origine delle guerre fra greci e persiani, egli ci racconta in realtà i territori dell’oikoumene, ovvero tutta l’area “abitata” conosciuta dai Greci, indagando gli usi e le culture dei popoli con informazioni raccolte sul campo e distingue, quando possibile, fra documento e superstizione.
Focus: chi è l’altro?
La globalizzazione non è un fenomeno esclusivamente contemporaneo. Esplorazioni, rapporti commerciali, conquiste, imprese espansionistiche, scambi culturali hanno contraddistinto l’area mediterranea già in età classica, investendo il piano sociale, politico e religioso. Attraverso le narrazioni di autori greci e latini è possibile provare ad aprire una finestra sulla costruzione dell’immaginario antico relativo all’”altro” rispetto all’esploratore occidentale – greco o latino – e quindi alla definizione e ridefinizione continua dell’idea di “barbaro”. E’ tuttavia un punto di vista limitato, unidirezionale – dal mondo mediterraneo verso l’Oriente o l’altra sponda del Mediterraneo e non viceversa – e filtrato dalle poche voci che hanno avuto modo di lasciarne testimonianza scritta. Queste prime forme di globalizzazione, seppur storicamente determinate e diverse da quella attuale, ci pongono di fronte allo stesso problema di fondo: chi è l’altro e quale relazione ci chiede?
- Davide Sparti, La spiegazione sociale come traduzione, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 5 febbraio 1993, audiolibro (Questioni del tradurre: traducibilità e intraducibilità di linguaggi, culture e forme di vita)
- Alessandro Simonicca, Forma di vita e culture: antropologia come etica della conoscenza, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo il 5 marzo 1993, audiolibro (Questioni del tradurre: traducibilità e intraducibilità di linguaggi, culture e forme di vita)
- La comprensione dell’altro. Premesse filosofiche del confronto fra le culture, giornata di studi (Fondazione Collegio San Carlo, 16 ottobre 1992). Con interventi di Sergio Moravia, Salvatore Natoli, Armando Rigobello e Carlo Sini.
- Orizzonti mediterranei. Forme di globalizzazione in età classica. Fondazione Collegio San Carlo, Sala Cardinali, 11 ottobre – 12 dicembre 2019
- Globalizzazioni. Forme e immagini dell’universalismo, ciclo di lezioni (Fondazione Collegio San Carlo, settembre-novembre 2019)
3.1 I Persiani
Erodoto Parte da Alicarnasso, nell’odierna Turchia, percorre le strade dell’antico impero di Dario, scende in Egitto, conosce Atene nell’epoca di Pericle, di Sofocle e Fidia e matura un profondo rispetto per le civiltà, le usanze e i popoli non greci. Elleni, Lacedemoni, Egizi, Persiani, Sciti, Traci, Massageti: popoli antichi con storie e usanze curiose, comprensibili, condannabili, ma sempre documentate con attenzione.
Descrive la Lidia e la Persia nel I libro, l’Egitto nel II libro, la Persia nuovamente nel III e la Scizia e la Libia nel IV. Oltre il IV, l’opera prosegue con altri cinque libri che narrano le vicende del mondo greco-persiano fino alla battaglia di Platea e la vittoria definitiva dei Greci sui Persiani.
Secondo le sue ricerche fu il re della Lidia, Creso, il primo a commettere un torto verso i Greci d’Asia:
Erodoto, Storie, I, 26
Morto Aliatte, ereditò il regno Creso, figlio di Aliatte, all’età di trentacinque anni e, tra i Greci, attaccò per primo gli Efesi. […] Per primi, dunque, Creso attaccò gli Efesi, poi di volta in volta tutti gli Ioni e gli Eoli, adducendo per ciascuno un pretesto diverso, recando accuse più gravi contro quelli per cui se ne potevano trovare di più gravi, ma contro altri adducendone anche di futili
Dopo questo inizio il primo libro si concentra sulla caduta di Creso e le imprese di Ciro il Grande, noto per la creazione dell’impero persiano attraverso grandi conquiste in tutto il Medio Oriente tra il 559 a.C. e il 530 a.C. I Persiani sono il primo popolo del quale vengono descritte alcune abitudini e, nel farlo, Erodoto racconta anche se stesso:
Erodoto, Storie, I
§ 133 – Sono molto dediti al vino; […] e, quando sono ubriachi, prendono le decisioni più serie. Ciò che loro piacque mentre decidevano, il padrone della casa, nella quale si sono riuniti a consigliare, lo ripropone il giorno dopo, quando sono sobri; se lo approvano anche da sobri, mettono in atto la decisione; se non lo approvano, ci rinunciano. Tuttavia, se la prima volta hanno deliberato da sobri, tornano a decidere quando sono ubriachi.
§ 134 – Incontrandosi in strada l’un l’altro, si può capire così se quelli che si incontrano sono di pari condizioni: infatti, invece di salutarsi, si baciano sulla bocca; se uno dei due è inferiore di poco, si baciano sulle guance; se invece uno è inferiore di molto, si prosterna all’altro inchinandosi”
§ 136-137 – I Persiani sono il popolo che più facilmente adotta usanze straniere. Indossano vesti mede, ritenendole più belle delle proprie, e in guerra portano corazze egiziane […] Ai loro figli, dai cinque fino ai venti anni, insegnano solo tre cose: ad andare a cavallo, a tirare con l’arco e a dire la verità. Finché un bambino non compie i cinque anni, non compare mai alla vista del padre, ma vive insieme alle donne: fanno così per evitare che il bambino, se muore durante il periodo in cui lo si alleva, arrechi dolore a suo padre. Io approvo questa usanza e ne approvo anche quest’altra, che cioè per un’unica colpa neppure il re mette a morte alcuno, e nessun altro dei Persiani infligge una pena irreparabile a uno dei suoi servi per un’unica colpa
3.2 Gli Egiziani
Nel secondo libro vengono esposte tutte le qualità e le curiosità della terra d’Egitto. Facendo riferimenti ai suoi viaggi compiuti in giovinezza, Erodoto fornisce una dettagliata descrizione dei luoghi, dei paesaggi, delle usanze popolari e delle tradizioni dell’Egitto, sottolineando in particolare le funzioni del fiume Nilo e concedendosi un’altra presa di posizione:
Erodoto, Storie, II, 4
[Gli Egiziani] hanno organizzato il calendario in modo, a mio avviso, più accorto dei Greci, in quanto i Greci inseriscono ogni due anni un mese intercalare per rispettare l’andamento delle stagioni, mentre gli Egiziani, calcolando dodici mesi di trenta giorni ciascuno, aggiungono ogni anno cinque giorni soprannumerari e così il ciclo delle stagioni torna sempre alle stesse date
Nella narrazione vengono usate alcune estremizzazioni, come nel caso del commercio al dettaglio che non era, realmente, affidato alle sole donne, ma se ne serve per sottolineare le diversità e non per forza in modo negativo:
Erodoto, Storie, II, 35
Vengo invece all’Egitto, ampliando il racconto, poiché possiede moltissime meraviglie e offre opere superiori a ogni descrizione, a confronto di ogni altro paese: appunto per ciò se ne parlerà più a lungo. Gli Egiziani, insieme al clima differente che c’è presso di loro e al fiume che presenta una natura diversa dagli altri fiumi, hanno adottato quasi in tutto usi e costumi all’opposto degli altri uomini: in Egitto le donne frequentano il mercato e commerciano, gli uomini stanno a casa e tessono
Segue una dettagliata descrizione naturalistica non esente da sfumature mitologiche:
Erodoto, Storie, II, 73
C’è anche un altro uccello sacro: si chiama fenice. Io, però, lo ho visto solo in pittura. Di rado infatti compare tra di loro: come dicono gli abitanti di Eliopoli, ogni cinquecento anni. Dicono che venga quando gli muore il padre. Se è come lo si dipinge, ha queste dimensioni e questo aspetto: alcune delle sue piume sono dorate, altre rosse; nella sagoma e nella grandezza somiglia moltissimo a un’aquila
In alcuni passaggi l’esperienza personale e la reazione emotiva che prova diventano parte integrante della narrazione trascinando il lettore – ancora oggi – a guardare con i suoi occhi. A titolo di esempio si veda la descrizione del Labirinto di Meride, del quale parleranno anche altri autori come Strabone e Plinio il Vecchio. Per inciso, è interessante la vicenda tutta contemporanea della ricerca archeologica del labirinto, ma esula dai confini di questa narrazione. Così Erodoto:
Erodoto, Storie, II, 148
Ecco ciò che raccontano gli stessi Egiziani; […] Gli Egiziani che si erano resi liberi dopo il regno del sacerdote di Efesto [..] elessero dodici re, dividendo tutto l’Egitto in dodici parti. […] Decisero anche di lasciare un monumento in comune e in base a questa decisione costruirono un labirinto, che si trova poco al di sopra del lago Meride, […] Io l’ho visto ed è superiore a ogni descrizione. […] Sebbene le piramidi fossero superiori a ogni descrizione e ciascuna di loro equivalesse a molte opere greche, anche grandi, il labirinto tuttavia superava le piramidi. Ci sono dodici cortili aperti, che hanno porta uno di fronte all’altro, sei volti a borea e sei a noto: sono contigui: all’esterno sono circondati da uno stesso muro. All’interno ci sono due ordini di stanze: quelle sotterranee, e sopra di esse, quelle al pianterreno: tremila di numero, mille e cinquecento per ciascun ordine. Noi stessi abbiamo visto e abbiamo attraversato le stanze al pianterreno: ne parliamo dunque per averle contemplate di persona; [..] Infatti, i passaggi attraverso i vestiboli e gli andirivieni attraverso i cortili, andirivieni complicatissimi, provocavano meraviglia infinita a chi passava da un cortile nelle stanze, dalle stanze in portici colonnati, dai portici colonnati in altri vestiboli e dalle stanze in altri cortili. Tutti i tetti di queste costruzioni sono di pietra, come le pareti; le pareti sono piene di figure scolpite; ogni cortile è circondato da colonne di pietra bianca, perfettamente connessa. All’angolo dove finisce il labirinto si attacca una piramide di quaranta orge [ca. m. 1.80], sui cui sono scolpite grandi figure: la strada per la piramide è stata costruita sottoterra
3.3 Indiani, Scizi, Libi
Nel terzo libro Erodoto torna a concentrarsi sul popolo dei Persiani, narrando gli eventi riguardanti gli imperatori Cambise II e Dario I. Inserisce qui l’analisi di alcuni popoli limitrofi o soggetti all’impero persiano, come per esempio gli Indiani:
Erodoto, Storie, III, 98
Le stirpi degli Indiani sono molte e non parlano la stessa lingua; alcuni sono nomadi, altri no; alcuni vivono nelle paludi del fiume e si nutrono di pesci crudi, che prendono gettandosi da barche di canna; e ogni barca è fatta da un solo nodo di canna. Questi indiani portano vestiti di giunco; dopo che dal fiume hanno falciato il giunco e l’hanno battuto, lo intrecciano a modo di stuoia e lo indossano come una corazza
Gli Sciti vengono descritti come un popolo nomade, radicalmente diverso dagli altri, con usanze parimenti singolari:
Erodoto, Storie, IV
§ 61 – Ma poiché la terra scitica è assolutamente priva di legname, ecco il modo che hanno escogitato per cuocere le carni. Dopo aver scuoiato le vittime, mettono a nudo le ossa dalle carni; quindi mettono le carni in calderoni locali, se ne hanno, molto simili a crateri lesbi, tranne che sono molto più grandi; le mettono in questi calderoni e le fanno cuocere bruciandovi sotto le ossa delle vittime; se invece non hanno un calderone, introducono tutte le carni nei ventri delle vittime, vi mescolano acqua e sotto fanno ardere le ossa. Le ossa bruciano benissimo, mentre i ventri contengono facilmente le carni senza ossa; così un bue si cuoce da sé, e da sé ciascuna delle vittime. […]
§ 64 – [Gli Sciiti] Possiedono le seguenti usanze belliche: quando uno Scita abbatte il primo uomo, ne beve il sangue; porta al re le teste di quanti uccide in battaglia; infatti, se porta la testa, riceve una parte del bottino conquistato, altrimenti no.
I Libi “non possiedono nessuna arma da guerra né sanno difendersi” (IV, 174), i Garamonti possiedono buoi che pascolano all’indietro perché hanno corna curvate in avanti (IV, 183), e così vengono descritte le usanze dei Maci, o delle donne dei Gindani. Una panoramica così vasta gli consente, come si è già visto a proposito dei Persiani, una sorta di antropologia comparata nella quale i Greci fra i possibili termini di paragone, o fra i possibili testimoni, e in un caso e nell’altro non necessariamente i migliori.
Erodoto, Storie, IV
§ 104 – Gli Agatirsi sono gli uomini più amanti del lusso e portano più di chiunque altro ornamenti d’oro. Praticano la comunanza delle donne, al fine di essere tutti fratelli tra loro e quindi, essendo tutti parenti, di non nutrire né invidia né odio reciproco. Quanto alle altre usanze, si avvicinano ai Traci.
§ 105 – I Neuri invece hanno gli stessi costumi degli Sciti. Una generazione prima della spedizione di Dario capitò loro di dover abbandonare l’intera regione a causa dei serpenti… E’ probabile che questi uomini siano degli stregoni. In effetti gli Sciti e i Greci che vivono in Scizia sostengono che una volta all’anno ciascuno dei Neuri diventa un lupo per alcuni giorni e poi riprende di nuovo l’aspetto di prima: per quanto mi riguarda questi discorsi non mi convincono; tuttavia li fanno e per di più giurano di dire la verità.
- Herodoto halicarnaseo historico, Delle guerre de Greci, et de Persi. Tradotto per il conte Mattheo Maria Boiardo, 1533
- Narrazioni scelte dalle Storie di Erodoto d’Alicarnasso, 1882
- Narrazioni scelte dalle Storie di Erodoto d’Alicarnasso, 1863
4. Pausania: l’esplorazione della Grecia
Di Pausania si sa soltanto quanto si può dedurre da ciò che lui stesso narra nella sua opera: visse fra il 110 e il 180 ca., era greco ma d’origine asiatica ed è noto come il Periegeta, e cioè “colui che conduce intorno”, per distinguerlo dal Pausania generale spartano, fratello di Leonida I. E’ infatti noto per aver composto la Periegesi della Grecia, una guida ante litteram della Grecia a lui contemporanea, fonte preziosissima di informazioni di prima mano per storici e archeologi.
L’itinerario proposto dall’autore vede come punto di partenza Capo Sunio, nell’Attica, prosegue nella Megaride, e attraverso l’istmo di Corinto esplora in senso antiorario il Peloponneso dall’Argolide fino all’Arcadia, terminando con la Beozia, la Focide e la Locride: punto d’approdo non poteva che essere Delfi.
Nei dieci libri che compongono il testo, suddivisi in brevi sottocapitoli, l’autore ha come obiettivo un focus sui monumenti architettonici ma si sofferma spesso su elementi del paesaggio naturale incontrati lungo il cammino – monti, fiumi, laghi, grotte, flora e fauna. Consapevole della grandezza della Grecia classica, età che ha prodotto opere che giudica migliori rispetto al periodo artistico più recente, Pausania compone una mappa geografica in forma testuale, selezionando i soggetti anche in base all’importanza del contesto storico o religioso.
La Periegesi può essere intesa come una sorta di tessuto i cui fili intrecciati sono composti da manufatti architettonici e scultorei e da elementi del paesaggio naturale visti con i propri occhi, da episodi storici ben documentati, da credenze divine universalmente accettate e da leggende tramandate oralmente che l’autore va cercando interrogando chi incontra. Diffida delle fonti orali prediligendo i documenti scritti ma si affida anche alla voce popolare, o alla propria capacità di giudizio nella selezione delle informazioni:
Pausania, I, 23, 2
[…] dico cose ancora non pervenute in opere scritte, ma ritenute vere dalla maggior parte degli Ateniesi […]”
Pausania, IV, 4,3, p. 27
I Messenii dicono che fu Teleclo ad attentare alla vita di quelli che erano venuti al santuario [di Artemide Limnatisi in Messenia] e che in Messenia primeggiavano per dignità; la causa fu la qualità della terra della Messenia. Per l’attentato, Teleclo avrebbe scelto degli Spartiati ancora privi di barba, e, dopo averli acconciati come ragazze nella veste e nel resto degli ornamenti, li avrebbe introdotti, forniti di pugnali, presso i Messenii che stavano riposando; e i Messenii, per difendersi, avrebbero ucciso i ragazzi imberbi e lo stesso Teleclo. I Messenii dicono anche che i Lacedemonii, consci di avere per primi commesso un torto – infatti il loro re non aveva preparato il piano senza il conforto del pubblico parere -, non chiesero loro soddisfazione per l’uccisione di Teleclo. Queste sono le due versioni correnti, e ognuno si lasci persuadere a seconda della simpatia che ha per gli uni o per gli altri
Pausania, I, 31, 5
Facendo le mie indagini, mi sono reso conto che gli esegeti non sanno nulla di sicuro su queste divinità, ma io congetturo che le cose stiano così […]
Sono trascorsi secoli dall’età classica di Pericle. La Grecia che Pausania visita, divenuta da tempo provincia dell’impero romano, è in parte già in rovina; alcuni monumenti sono solo l’ombra di quell’antico splendore artistico e politico che, proprio in quel secolo, imperatori romani come Adriano e Marco Aurelio andavano recuperando ed esaltando.
Pausania, L’Acaia, VII, 2, 11
Una insenatura marina, non grande, penetrava nel territorio di Miunte; il fiume Meandro, chiudendone l’imboccatura con i suoi sedimenti, la trasformò in uno stagno; quando l’acqua di mare si mutò in acqua dolce, dallo stagno nacquero zanzare in quantità tale che costrinsero gli abitanti ad abbandonare la città. I Miusii trovarono rifugio a Mileto dove portarono le statue degli dei e tutti i beni che potevano trasportare; quando io la visitai, a Miunte non c’era nient’altro che un tempio di Dioniso in marmo bianco. […]
Come è naturale immaginarsi Pausania effettua delle scelte. Sorvola su alcuni punti di notevole interesse e si sofferma su dettagli che, pur non essendo ai nostri occhi determinanti, diventano tuttavia oggetto di descrizioni minuziose e preziose come testimonianza anche di un sapere artigiano. A Delfi descrive:
Pausania, X, 16, 1-2; pp. 87-89
Degli ex voto offerti dai re di Lidia non resta più nulla, a parte il supporto ferreo di un cratere di Aliatte. Questo è opera di Glauco di Chio, un uomo che ha scoperto il modo di saldare il ferro: ogni singolo elemento è attaccato a un altro elemento non con ganci o con chiodi, ma solo la saldatura tiene insieme il tutto ed è elemento di connessione per il ferro. La forma del supporto del cratere è quella di una torre che salendo da una base più larga finisce a punta. I lati del sostegno non sono ognuno per l’intera estensione compatti, ma le fasce orizzontali del ferro sono come i gradini di una scala, e quelle verticali sono ricurve all’estremità verso l’esterno, e questa era la sede del cratere.
Non manca di riportare, per i monumenti o i siti, la relativa cornice storica, religiosa e mitico-leggendaria, arricchendo la narrazione di aneddoti:
Pausania, La Corinzia, II, 1, 4
Proprio all’inizio dell’istmo si trova il luogo, dove il brigante Sini, attaccandosi ai pini, li piegava verso il basso; quanti vinceva in battaglia, egli li legava ai pini, per poi lasciar risollevare gli alberi: allora ciascuno dei due pini traeva a sé chi v’era stato legato, e poiché il nodo non cedeva né in un senso né nell’altro, ma con pari forza traeva da entrambe le parti, l’incatenato ne restava dilaniato. In tal modo, a sua volta, Sini fu ucciso da Teseo
Di Atene, la città alla quale dedica le maggiori attenzioni assieme a Olimpia, dice:
Pausania, I, 27, 3
Ciò che comunque mi ha meravigliato di più è un rito non noto a tutti […] Non lontano dal tempio della Poliade abitano due giovinette, che gli Ateniesi chiamano arrèfore; per un certo tempo esse vivono presso la dea, ma, quando è arrivata la festa, compiono di notte quanto segue. Si caricano sul capo degli oggetti che la sacerdotessa di Atena dà loro da portare, ma né quella che li affida sa cosa dà, né lo sanno quelle che li portano; e in città, a non grande distanza, c’è il recinto dell’Afrodite detta <<dei giardini>>, attraversato da un passaggio naturale sotterraneo: qui le fanciulle scendono, lasciano sotto terra il loro fardello, e in cambio ne raccolgono un altro ben coperto, che portano via […]
Pausania termina il suo pellegrinaggio al santuario di Asclepio, nel porto dell’allora Naupatto, raccontando un miracolo legato alla divinità.
- Pausania, Guida della Grecia, tomi I-X, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1982-2017
- James George Frazer, Sulle tracce di Pausania, 1994
- Valentina Di Napoli, Pausania aveva ragione, in “Archeo: attualità dal passato”, a. 21, n. 240 (feb. 2005), pp. 28-30
- Davide Susanetti, Pausania a Delfi, ombelico e archivio di tutte le storie, in “Il Manifesto”, 7 gennaio 2018
Focus: il Viaggio d’Anacarsi il Giovane di Jean-Jacques Barthélemy
Viaggio di Anacarsi il Giovine, vol. 6, p. 1
Passammo l’inverno in Atene, aspettando con impazienza il momento di ripigliare il seguito dei nostri viaggi. Noi scorse avevamo le regioni settentrionali della Grecia: ci restava a trascorrere quelle del Peloponneso. Ne prendemmo il cammino al ritorno della primavera.
L’idea di una guida della Grecia che permetta al lettore di viaggiare pur stando seduto ha dato frutti anche a distanza di molto tempo. Fra il 1788 e l’anno successivo Jean-Jacques Barthélemy (1716-1795) sacerdote francese noto per essere stato scrittore, archeologo e numismatico, pubblica la prima edizione del suo Viaggio del giovane Anacarsi in Grecia a metà del IV secolo, opera che aveva composto a partire dal 1757. E’ un romanzo storico in forma di viaggio o una guida in forma di romanzo, tradotto in italiano solo un paio d’anni più tardi e pubblicato a Venezia con un corredo di tavole e illustrazioni che rendono molto più agevole, per il lettore, orientarsi nelle terre che fanno da sfondo, e talvolta sono le protagoniste, del grande viaggio di Anacarsi.
Questi, come si legge nell’”Avviso”, è un giovane scita (terra che Erodoto identifica con l’ampia regione fra Danubio e Don) che giunge in Grecia qualche anno prima della nascita di Alessandro, prende dimora in Atene e da qui esplora le terre vicine prendendo nota delle curiosità, delle usanze, delle feste come dei sistemi di governo, discutendo dei progressi dello spirito umano e dialogando, fra gli altri, con Aristotele, Senofonte, Focione e Demostene. Con l’occasione Anacarsi annota le vicende che hanno interessato la Grecia negli anni in cui lui, secondo la fantasia dell’autore, si trovava in quel paese. Dunque perché un viaggio e non un manuale di storia greca? Di tutto questo materiale “se n’è composto un viaggio, anziché una storia; perché in un viaggio tutto è posto in uso, persino le minute circostanze, che non è lecito ad uno Storico di riferire.“
Viaggio di Anacarsi il Giovine, vol. 6, pp. 5-6
La sera stessa del nostro arrivo, cenando coi principali cittadini [di Megara], noi gl’interrogammo sullo stato della loro marineria. […] Poscia cercarono di giustificarsi di qualche perfidia che vien loro comunemente rimproverata e ci raccontarono un aneddoto che merita d’essere conservato. Gli abitanti della Megaride aveano preso le armi gli uni contro gli altri. Fu convenuto fra loro, che la guerra non farebbe sospendere i lavori della campagna. Il soldato che prendeva prigioniero un agricoltore, lo conduceva a casa sua, lo teneva seco a tavola, e lo rimetteva in libertà prima ancora d’averne ricevuto il riscatto pattuito con lui. Il prigioniero si affrettava a portarglielo tosto, che poteva radunarlo. Contro chi mancava alla promessa non si adoperava il ministero della legge, ma passava dappertutto per un uomo detestabile per la sua ingratitudine ed infame carattere.
Anacarsi è un personaggio immaginario, uscito dalla penna dell’erudito sacerdote Barthélemy – al quale peraltro si deve la decifrazione della lingua fenicia – e da questi inserito, nella finzione, nella discendenza di quell’Anacarsi riconosciuto come una dei Sette Savi da Erodoto e da Plutarco (Vite parallele, Solone, 5,2-3). L’autore non si lascia sfuggire l’occasione di fare sfoggio della sua profonda conoscenza delle antichità, inserendo nel testo numerosissime note a piè di pagina ad indicare le fonti delle informazioni storiche, architettoniche e geografiche.
Il Viaggio d’Anacarsi è stato digitalizzato dalla Fondazione Collegio San Carlo nella sua versione italiana ed è reperibile su Internet Archive (vol. 1, vol. 2, vol. 3, vol. 4, vol. 5, vol. 6, vol. 7, vol. 8, vol. 9, vol. 10, vol. 11 e vol. 12).
Un seguito – dichiarato – del viaggio di Anacarsi è stato scritto da Alexandre barone di Theis (1765-1842) all’inizio dell’Ottocento: il Viaggio di Policlete a Roma, in 4 volumi, corredato da tavole, è reperibile anche nella versione digitalizzata (qui il vol. 1, vol. 2, vol. 3 e vol. 4).
- frate Stefano Lusignan, Chorograffia et breve historia universale dell’isola de Cipro principiando al tempo di Noè per in sino al 1572, Bologna
- Andrea Marmora, Della historia di Corfu libri otto, Venezia, 1672 (qui il volume in una differente edizione)
- Pausania, Graeciae descriptio, Firenze, 1551
- abate Gabriel Bonnot de Mably, Osservazioni sopra i Greci, Venezia, 1766
- Nicolò Vellaio, La guerra cretense, Bologna, 1647
- Benedetto Bordoni, Libro di Benedetto Bordone nel qual si ragiona de tutte l’Isole del mondo, Venezia, 1528
- Tucidide, De bello peloponnesiaco, Venezia, 1490
- Erodoto, Dell’ imprese de’ greci e de’ barbari con la vita d’Omero, Verona, 1733 (qui il tomo I e il tomo II in una differente edizione)
- Marco Guazzo, Cronica, ne la quale ordinatamente contiensi l’essere de gli huomini illustri antiqui e moderni, le cose e i fatti di eterna memoria degni occorsi dal principio del mondo sino a questi nostri tempi, Venezia, 1533
Questa storia è stata scritta con il contributo di Daniele Borghi e Alessandra Magnani