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Roma antica: l’ “altrove” visto dall’Impero

La storia di Roma è, almeno in parte, la storia delle sue progressive conquiste territoriali. Dalla Britannia al Medio Oriente, dal Nord Africa fino all’oceano Atlantico, l’Impero romano raggiunge un’area estesa a buona parte del mondo noto in Occidente. I Romani acquisiscono nel tempo nozioni circa l’esistenza di regni e imperi distanti, retti da civiltà antiche o frutto a loro volta di conquiste, come i regni indo-sciti, il subcontinente indiano con le sue alterne vicende o l’impero cinese, mentre una maggiore prossimità con l’impero partico e poi sasanide, che occupava la zona oggi indicata genericamente come Medio Oriente, determinerà con questi popoli rapporti spesso ostili.

Eppure, a lungo, l’Impero romano si percepisce senza confini: “l’impero del mondo” che occupa l’ecumene, l’intero continente di terre emerse circondate dal fiume Oceano.

Ma le popolazioni europee e mediterranee come vedevano la potenza di Roma, e come erano visti da essa? Sono gli stessi scrittori antichi a dare voce ad alcune fra le innumerevoli implicazioni di quella espansione romana che si caratterizza, nella storia occidentale, come la prima tappa di così ampia portata nel processo che oggi potremmo definire “globalizzazione”.

Focus: Orizzonti mediterranei

La globalizzazione non è un fenomeno esclusivamente contemporaneo. Esplorazioni, rapporti commerciali, conquiste, imprese espansionistiche, scambi culturali hanno contraddistinto l’area mediterranea già in età classica, investendo il piano sociale, politico e religioso. Per aprire le porte alle narrazioni di autori greci e latini nell’autunno 2019 la Fondazione Collegio San Carlo ha organizzato nelle sue sale la mostra “Orizzonti mediterranei”, in concomitanza con il ciclo di lezioni del Centro Culturale incentrato proprio sulle Globalizzazioni.

Questa duplice indagine aveva lo scopo di descrivere come questi processi abbiano generato contatti tra culture differenti le quali hanno costruito i loro immaginari tramite la reciproca conoscenza. Queste prime forme di globalizzazione, seppur storicamente determinate e diverse da quella attuale, ci pongono di fronte allo stesso problema di fondo: chi è l’altro e quale relazione ci chiede?

1. Polibio di Megalopoli (205 ca – 123 a.C. ca)

Polibio, Historiarum libri quinque, libro I cap. I

Quale tra gli uomini … è così sciocco o indolente da non voler conoscere come e grazie a quale genere di regime politico quasi tutto il mondo abitato sia stato assoggettato e sia caduto in nemmeno cinquantatré anni interi sotto il dominio unico dei Romani, cosa che non risulta essere mai avvenuta prima?

Polibio di Megalopoli compone le sue Historiae con un obiettivo dichiarato non comune: raccontare e chiarire come sia stato possibile, per Roma, arrivare a conquistare e dominare l’ecumene, ovvero il Mediterraneo e la parte conosciuta dell’Europa, in poco più di cinquant’anni (220-167 a.C.).

Anche il punto di vista di Polibio non è comune. Nel corso della sua vita è ostaggio, soldato e infine ambasciatore per conto di Roma; in decenni di viaggi e studi raccoglie materiale e documenti grazie ai quali compone la sua monumentale Storia. Questa messe di informazioni gli permette, durante la stesura dell’opera, di attenersi il più possibile ai fatti realmente accaduti, scrivendo con rigore ed evitando esplicitamente i racconti mitologici. E’ infatti convinto che sarebbero stati gli stessi avvenimenti da lui raccontati a dar conto della sua tesi sulla grandezza di Roma, una potenza guidata dal destino (thyche) verso la dominazione del Mediterraneo.

Polibio di Megalopoli, statua all’esterno del Parlamento Austriaco (Manfred Werner – Tsui, CC BY 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by/3.0, via Wikimedia Commons)

Vediamo più da vicino l’autore. Il suo sguardo sulle terre di conquista è dunque lo sguardo del romano, eppure Polibio non è romano: è infatti di nazionalità greca, e da greco vede e nota le trasformazioni che le conquiste di Roma stavano apportando alla sua società e alla sua cultura.

Da greco aveva ricevuto, negli anni dell’adolescenza trascorsa a Megalopoli, una formazione culturale scevra da influenze romane, finché la sconfitta della Lega Achea nella battaglia di Pidna (168 a.C.) non porta, fra le altre conseguenze, anche l’obbligo per la Lega di consegnare circa 1000 nobili greci a Roma, come ostaggi. Polibio è fra questi.

È nel successivo periodo di detenzione, per quanto vissuto nell’agiatezza garantita agli ostaggi nobili, che il giovane greco lega con diversi esponenti della classe dirigente romana tra cui, in particolar modo, Scipione Emiliano, e diventa nel tempo un personaggio piuttosto influente.

La sua opera principale, le Historiae, è giunta sino a noi in maniera parziale: dei 40 libri originari dell’opera, che coprivano il periodo 264-168 a.C., poi ampliato dopo il 146 a.C. al periodo 168-146 a.C., rimangono solo i primi 5, più ampi estratti dei libri fino al XVIII e poco altro materiale proveniente dai successivi. Fra gli intenti finali e dichiarati dell’opera c’è il proposito, formulato comunque da un intellettuale di formazione ellenistica, di spiegare ai Greci del suo tempo l’incredibile ascesa e il potere raggiunto da una città per loro “barbara”, come Roma.

Virgilio, Opere, Venezia 1736, tomo I

Le tre diverse fasi della vita dell’autore lasciano profondi segni nell’opera: ciò che vive e l’analisi di quanto apprende lo portano ad assumere atteggiamenti differenti nei confronti dell’imperialismo romano.

In una prima fase, dominata dall’idea della cosiddetta translatio imperii, individua Roma come l’ultima delle grandi potenze che, a turno, hanno dominato il Mediterraneo. Si basa in questo su una concezione “biologica” della storia: ogni organismo politico, esattamente come ogni organismo biologico, deve avere un suo ciclo vitale e come tale nasce, diventa adulto e infine muore, specchio di un’idea circolare del tempo. Il raggiungimento del confine estremo per l’impero porta già inscritta la possibilità del declino. Secondo questo ragionamento, Roma e Cartagine si sono scontrate quando quest’ultima era più antica, o più anziana, della prima ed era quindi in qualche modo destinata alla sconfitta. In più, avendo imparato a conoscere il mondo romano dall’interno, Polibio comprende e argomenta anche che Roma riesce a mantenersi potente grazie alla saggezza della sua costituzione – alla quale si deve il mantenimento dell’equilibrio tra i poteri monarchico, aristocratico e popolare – e alle sue istituzioni, considerate dall’autore la vera forza dei Romani più ancora dell’apparato militare.

Libro VI, 18

Tale essendo il potere di ciascuna delle parti di danneggiare le altre o di collaborare con esse, la loro combinazione risulta appropriata a tutte le circostanze, sicchè non è possibile trovare una struttura costituzionale migliore di questa. […] Perciò la particolare natura di questo sistema politico fa sì che sia impossibile contrastarlo e gli permette di conseguire tutti gli scopi che si prefigge.

Virgilio, Opere, Venezia 1736, tomo I

In una seconda fase, invece, il pensiero dello storico evolve verso un’analisi più pessimista.

Non è ingenuo né adulatore: nota con disincanto gli aspetti imperialistici e distruttivi della conquista e, se dapprima aveva ritenuto Roma guidata dal destino verso l’egemonia del Mediterraneo, ora riconosce come valido anche il pensiero di chi deve subire la conquista. Il principale suggerimento che rivolge ai popoli conquistati è di accettare il dominio romano come un fatto ineluttabile, al quale non ci si può opporre e col quale bisogna imparare a convivere nel modo più mite possibile. In questa stessa fase, tuttavia, si dimostra anche preoccupato per la corruzione che ha iniziato ad insidiarsi fra i Romani, un accenno di crisi che intravede nella società e che teme possa portare al deteriorarsi di quelle istituzioni che, a dispetto di tutto, tanto ammira.

Nell’età avanzata si precisano temi che erano già emersi in precedenza. Convinto che sia proprio la supremazia romana a privilegiare l’utilizzo di strategie diplomatiche e a sfavorire l’insorgere di nuove guerre in un mondo nel quale, comunque, vige ancora la legge del più forte, Polibio affina anche l’analisi dell’impero nelle sue molteplici sfaccettature politiche e sociali.

Si insinua in lui la convinzione che la corruzione sia inevitabilmente legata all’etica sociale. Si inserisce così nel dibattito, tutto interno, proprio sulla corruzione e sulla crisi delle istituzioni, portato avanti dall’ala più tradizionalista della complessa politica dell’Impero.

  • Polybij historiographi Historiarum libri quinque, Nicolao Perotto interprete – 1548 – Gryphius, Sébastien –
  • Polybii Lycortae F. Megalopolitani Historiarum libri qui supersunt. Ex interpretatione Isaaci Casauboni. Aenae Vetustissimi Tactici commmentarius De toleranda obsidione; eodem Casaubono interprete – 1610 – Wechel, Andreas Erben & Aubry, Johann

Focus: l’espansione di Roma tra ideologia e conquista

Giovanni Brizzi (professore emerito di Storia romana – Università di Bologna), Impero. L’espansione dell’antica Roma tra ideologia e conquista, conferenza tenuta presso la Fondazione Collegio San Carlo l’11 ottobre 2019

2. Caio Giulio Cesare (100 a.C. – 44 a.C.)

In qualità di proconsole Caio Giulio Cesare guida la campagna di conquista romana della Gallia transalpina fra il 58 e il 50 a.C. Per tenere informato il Senato tiene una sorta di diario, i Commentarii, poi rivisti e arricchiti al suo ritorno per divenire un’opera destinata al pubblico.

I Commentari sono scritti con uno stile asciutto, diretto, che ben si addice ai movimenti di una campagna militare e allo stile di un comandante. Cesare parla di sé in terza persona ma se ne avverte la presenza in ogni punto: offre al lettore antico e moderno un’immagine ben chiara di cosa significa, per lui, la costruzione dell’impero. Parla degli altri popoli – non mediterranei, quindi ancora “barbari” pur essendo europei – esprimendo giudizi su di essi da un punto di vista militare, strategico, culturale, politico. Mostrando di leggerne senza difficoltà pregi e difetti assume la posizione di chi è in grado di comprenderne, letteralmente, l’intera cultura in un unico sguardo, con l’atteggiamento paternalistico di chi ammonisce, punisce, perdona, controlla a suo piacimento.

Caio Giulio Cesare, Commentarii de bello gallico, Leipzig 1877

I Commentarii sono opera molto nota e ancora oggi una lettura di grande immediatezza. In questa sede ne vediamo pertanto solo gli aspetti legati al rapporto con le altre popolazioni, un rapporto altalenante e passibile, spesso, di letture utilitaristiche.

Nel settimo libro, ad esempio, si esalta la fama e l’abilità del grande condottiero arverno Vercingetorige – gli Arverni erano uno dei tanti popoli celtici che abitavano la Gallia – così che la vittoria di Cesare possa ricevere ulteriore luce passando dalla sconfitta di Gergovia alla vittoria definitiva di Alesia.

Libro VII, 4

In una maniera simile, in quel luogo Vercingetorige, figlio di Celtillo, Arverno, giovane di somma potenza, il cui padre aveva ottenuto il principato di tutta quanta la Gallia e per questo motivo, ovvero perché aspirava al regno, era stato ucciso dalla cittadinanza, convocati i suoi protetti, li entusiasmò facilmente. Dopo che venne conosciuto il suo piano, si corre alle armi. Venne bloccato da Gobannizione, suo zio paterno, e dai restanti principi, che non ritenevano che bisognasse tentare questa occasione; viene cacciato dalla città di Gergovia; tuttavia non desistette e tenne nei campi un arruolamento di poveri e delinquenti. Riunita questa schiera, porta al suo volere chiunque lui avvicini dalla città; li esorta a prendere le armi per la libertà comune e radunate molte truppe scaccia dalla città i suoi avversari da cui poco prima era stato scacciato. Viene chiamato re dai suoi. Manda anche ambascerie ovunque; supplica di prestare fede al giuramento. Velocemente unisce a sé i Senoni, i Parisi, i Pittoni, i Cadurci, i Turoni, gli Aulerci, i Lemovici, gli Andi e tutti gli altri che si trovano vicini all’Oceano: con il consenso di tutti viene conferito a lui il comando supremo. Una volta offerto questo potere, ordina a tutte queste città di consegnare ostaggi, e ordina che gli vengano condotti velocemente un numero stabilito di soldati, e stabilisce quante armi ogni città debba produrre in patria e prima di quale tempo; si occupa soprattutto della cavalleria. Aggiunge alla massima diligenza anche la massima severità del comando; costringe i dubbiosi per mezzo della grandezza della pena. Infatti se è stato commesso un reato molto grande, uccide i colpevoli con il fuoco e tutti i tormenti, per un motivo più leggero, strappate le orecchie o cavati gli occhi a ognuno, rimanda in patria i colpevoli, affinché siano di ammonimento ai restanti e terrorizzino gli altri con la grandezza del castigo. […]

Persino gli assetti geopolitici vengono piegati a piacimento. Il Reno viene indicato come fattore divisivo delle popolazioni celtiche e spartiacque fra i Galli e i Germani: se così non fosse stato raccontato la vittoria sarebbe apparsa mutila, mancando la conquista dei territori occupati dal ceppo celtico germanico. Questa divisione e l’affermazione della conquista dei territori ad ovest del Reno, occupati dalle popolazione celtiche connotate come Galli, individua e forse crea confini territoriali forzando la linea di demarcazione.

Libro VI, 11-21

Poiché si è giunti a questo punto della narrazione non sembra che sia inopportuno parlare dei costumi della Gallia e della Germania e in che cosa differiscono queste popolazioni fra loro. In Gallia esistono fazioni non solo in tutte le città, villaggi e cantoni, […]. I germani differiscono da queste consuetudini. […]

Nonostante questa lettura interpretativa parzialmente piegata a proprio vantaggio, la divisione attuata da Cesare e ripresa poi da Cornelio Tacito nella sua opera De origine et situ Germanorum – di cui parliamo più diffusamente qui sotto – si configura come una delle tesi di lettura etnografica più interessanti del periodo.

Libro I, 1

La Gallia è nel suo complesso divisa in tre parti: di cui l’una l’abitano i Belgi, l’altra gli Aquitani la terza quelli che si chiamano Celti nella loro lingua, Galli nella nostra. Tutti questi popoli si differenziano tra loro per lingua, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna separa i Galli dagli Aquitani, dai Belgi [li dividono] la Marna e la Senna. Di tutti questi, i Belgi sono i più impavidi poiché sono davvero lontani dal modo di vivere e dall’urbanità della Gallia Narbonese, e i mercanti assai di rado vanno da loro per portare quelle cose tendono a corrompere gli animi, e sono più affini ai Germani, che abitano al di là del Reno, con i quali fanno guerra senza interruzione. Per tal motivo anche gli Elvezi superano in virtù i restanti Galli, perché combattono quasi quotidianamente con i Germani, quando o li respingono dai loro territori o quando essi stessi portano guerra nei loro territori. Di questi una parte, che s’è detto che occupano i Galli, inizia dal fiume Rodano, è cinta dalla Garonna, dall’Oceano, dai territori dei Belgi, tocca inoltre il Reno dalla parte di Sequani ed Elvezi, e si estende verso nord. La regione dei Belgi ha inizio dalle regioni più lontane della Gallia, si estende sino al corso inferiore del Reno, si stende a nord e verso oriente. L’Aquitania si stende dalla Garonna ai Pirenei e fino a quella parte dell’Oceano che volge alla Spagna; [l’Aquitania] va da occidente a settentrione.

Nel dar voce ai barbari Cesare riporta quello che oggi è considerato uno dei quattro manifesti dell’imperialismo romano. Sono discorsi fatti pronunciare a capi di altre popolazioni e riportati da autori romani – quanto creati, quanto manomessi è difficile dire – e che ricalcano la linea della propaganda antiromana. In questo caso, nel settimo libro di Cesare viene data voce al nobile arverno Critognato. Questo discorso, con tutti i distinguo del caso e citato da Cesare stesso per la sua “eccezionale ed empia ferocia”, consente comunque di intuire come l’occupazione romana fosse percepita da coloro che la subivano.

Libro VII, 77

[…]. I Cimbri dopo aver razziata la Gallia e seminata la rovina alla fine ne uscirono e cercarono altre terre, lasciandoci il nostro diritto, le nostre leggi, le nostre campagne, la libertà. I Romani invece a che altro mirano o che altro vogliono, se non installarsi per invidia sui campi di un popolo conosciuto per la sua nobiltà e per la potenza militare, imponendogli per sempre il giogo della servitù? Mai essi hanno combattuto per altro che per questo. Se ignorate cosa avviene presso nazioni lontane, guardate la Gallia a noi confinante: ridotta a provincia, perso il suo diritto e le sue leggi, prostrata sotto le scuri dei fasci, geme in perpetua servitù.

Agasias (?), statua di Gallo morente, trovata nell’Agorà degli Italiani a Delos, ca. 100 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. 247.

Focus: le politiche imperiali

Aldo Schiavone, La politica dei confini dell’Impero romano, conferenza tenuta il 24 ottobre 2003 presso la Fondazione Collegio San Carlo

“La strada va avanti e va avanti. Il vento fischia attraverso le piume degli elmi e proprio quando tu pensi di essere arrivato alla fine del mondo tu vedi fumi levarsi da est ad ovest fin dove l’occhio può arrivare, e sotto di essi fin dove l’occhio può spingersi una lunga bassa linea di torri che ora si nasconde e ora appare più nettamente, e che accompagna il corso del sole da dove sorge a dove tramonta, e questo è il muro”.

“Ecco la frontiera, il limite. Il muro naturalmente è il Vallo di Adriano che taglia l’Inghilterra quasi al confine con la Scozia, da un mare all’altro. Chi scrive queste parole è Kipling. Questa è un’immagine romantico-vittoriana del confine ma quello che viene descritto non è l’immagine di quello che per i Romani era un confine: il Vallo di Adriano non è percepito come tale dall’Impero. Non almeno in senso politico-giuridico, non in senso moderno: limes è la strada, la via che delimita e che passa in mezzo a due campi, a due proprietà private e solo in questo senso è un confine. Il Vallo di Adriano, come tutte le grandi strutture difensive poste alla periferia dell’Impero, in Britannia, in Africa, fra il Reno e il Danubio, è una grande macchine tattico-strategiche di difesa ma non segna il confine dell’Impero Romano.

L’impero romano si autorappresenta, si autopercepisce, vive nella coscienza dei Romani colti come per definizione, per antonomasia, ontologicamente, intrinsecamente illimitato. L’illimitata maestà della pace romana, dice Plinio: senza confini.

La “pace romana” è un modo metaforico per indicare l’impero. Il segno dell’Impero è la pacificazione, quella che [è presente] nel grottesco rovesciamento di un testo tacitiano, in cui Tacito presta la sua voce all’avversario, al nemico di Roma, e gli fa dire “avete fatto il deserto e la chiamate pace”. Certo, se Tacito finge così bene la mente del nemico vuol dire che un retropensiero, un fondo buio e oscuro nella realtà imperiale romana c’era”.

Aldo Schiavone, La struttura nascosta, in AA.VV., Storia di Roma, vol. IV, Torino, 1989, pp. 30-31

[…] generazioni e generazioni di uomini e di donne, nate e vissute in paesi controllati militarmente da Roma, che noi siamo abituati a pensare nel cuore dell’Europa moderna, letteralmente respinti fuori dalla storia dalla cronica mancanza di cibo e d’informazione: è anche questo il mondo antico

Mappa di un codice contenente la “Congiura di Catilina” e la “Guerra di Giugurtina” di Sallustio. Genève, Bibliothèque de Genève, Ms. lat. 54, c. 34v

Focus: le “voci del dissenso”

Cesare non è l’unico autore romano a far parlare chi si dichiara nemico di Roma e si trova a scontrarsi con essa per il controllo del proprio paese. Vi sono altri autori che adottano lo stesso espediente, calcando talvolta sulle efferatezze proprie dei conquistatori.

Il primo in ordine cronologico è il frammento di lettera che C. Sallustio Crispo, uno dei più importanti storici della Roma antica, riporta nella sua opera Historiae. E’ una missiva scritta dal sovrano del Ponto, Mitridate, al re dei Parti Arsace, nella quale lo invita caldamente ad unirsi alla guerra contro i Romani:

Sallustio, C. Sallustius Crispus cum veterum historicorum fragmentis, Leida, Elzevier & Elzevier, 1634 – il frontespizio è inciso da Cornelius Claesz Duysend

Sallustio, Fragmentarum Historiae, Epistula Mithridatis, 69 – p. 167

[…]. Per i Romani l’unico e inveterato motivo per combattere contro tutti i popoli e le nazioni e i re, è la smisurata brama di dominio e di ricchezza. Spinti da essa, dapprima intrapresero una guerra contro Filippo re di Macedonia – ma fingevano per lui amicizia finché erano premuti dai Cartaginesi; poi fraudolentemente staccarono da lui Antioco che gli veniva in aiuto, con concessioni in Asia; subito dopo, piegato Filippo, Antioco fu spogliato di tutto il territorio al di qua del Tauro e di diecimila talenti. Perseo, poi, il figlio di Filippo, dopo molte e alterne lotte lo accolsero sotto la loro protezione dinanzi agli dei di Samotracia; ma, astuti escogitatori di perfidie, dato che, in base ai patti, gli avevano concesso la vita, lo fecero morire d’insonnia. Quell’Eumene, la cui amicizia orgogliosamente ostentano, anzitutto lo consegnarono ad Antioco, come prezzo della pace; e poi, tenendolo a custode del territorio conquistato, con le spese che gli imposero, e con gli oltraggi di cui lo coprirono, da re che era, lo resero il più miserabile degli schiavi; e, inventando un empio testamento, trascinarono in un corteo trionfale suo figlio Aristonico, perché reclamava il regno di suo padre. E occuparono l’Asia. Infine, morto Nicomede, misero a sacco la Bitinia, sebbene ci fosse incontestabilmente un figlio natogli da Nisa, che egli aveva proclamato regina.

Questa lettera non è l’unico scritto di propaganda antiromana che riguarda il sovrano del Ponto Mitridate. Giustino, storico romano del II-III secolo d.C., “riporta” un discorso che Mitridate, già re di Cappadocia e noto egli stesso per una politica e una condotta disinvolta, avrebbe fatto ai suoi uomini per spronarli alla guerra contro Roma. Volge a proprio favore, in chiave dispregiativa, la leggenda della Lupa e della fondazione di Roma da parte di Romolo e Remo, definendo i Romani come un “popolo di lupi”:

Giustino, Le istorie di Trogo Pompeo compendiate da Giustino, vol. unico, Milano, per Antonio Fontana, 1829

Giustino, Epitoma Historiarum Philippicarum Pompei Trogi, XXXVIII, 6

[…]. Non erano le colpe dei re che Roma inseguiva con la sua ira, ma il loro potere e la loro dignità: tale era sempre stata la sua politica nei confronti di tutti gli altri e di sé stesso. […]. Se avevano giurato questo odio a tutti i re, è perché loro stessi avevano avuto una volta dei re il cui nome era solo una ignominia per loro; pastori Aborigeni, aruspici dalla Sabinia, esiliati da Corinto, schiavi etruschi, o infine dei Superbi, il più illustre dei nomi portati dai padroni di Roma; era così un popolo di lupi, insaziabile di sangue e di potere, avido e alterato dalla ricchezza.

Infine, l’ultimo autore la cui opera sia giunta fino a noi e che si occupa di inserire all’interno dei propri scritti un brano che renda esplicito ciò che i cosiddetti “barbari” pensavano della politica estera romana è Cornelio Tacito. Nelle pagine dedicate alla Vita di Agricola riporta il discorso del capo caledone Calgaco ai suoi uomini di fronte alla battaglia con i Romani preceduta da una cocente sconfitta. Merita un ampio estratto:

Tacito, Opere, Venezia, presso Giunta e Baba, 1645

Tacito, Agricola, 30-32

[…] Le precedenti battaglie, quando con varia fortuna si lottò contro i Romani, avevano nelle nostre braccia una speranza e un aiuto, perché noi, che siamo la stirpe più pura di tutta la Britannia, e che per ciò abitiamo proprio la regione più remota, noi che non scorgevamo neppure le spiagge dei popoli schiavi, avevamo persino lo sguardo libero da ogni contatto con l’oppressore. Noi che siamo al limite estremo del mondo e della libertà, fummo, fino ad oggi, difesi dal nostro nascosto rifugio e dall’oscurità della fama; si sa che tutto ciò che è sconosciuto è fonte di meraviglia. In questo momento, tuttavia, si vengono a scoprire i confini ultimi della Britannia, ormai al di là non v’è più altra gente, non ci sono che gli scogli e le onde, e, flagello ancor più grande, i Romani, alla prepotenza dei quali invano tenterete di sottrarvi con la sottomissione e l’obbedienza. Rapinatori del mondo, i Romani, dopo aver tutto devastato, non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare; loro soli bramano possedere con pari smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace.[…]»

Il discorso, del quale si è già parlato nel focus dedicato alla conferenza Limes del professor Schiavone – si veda qui sopra – ha anche un secondo punto di interesse, più sottile: quel riconoscimento di una certa “purezza” dei Britanni, un punto di vista che tornerà prepotente nella lettura del popolo dei Germani e che sarà gravido di conseguenze fino al passato più recente.

3. Publio Cornelio Tacito (55 ca. – 117-120 ca.)

3.1. La Germania e le altre opere

Uno degli scritti più noti, e forse più significativi, di Cornelio Tacito, senatore, legato dell’esercito romano probabilmente in Germania e proconsole d’Asia, è il “De origine et situ Germanorum”, composto intorno al 98 d.C. In quest’opera si propone di descrivere gli usi e costumi, le tradizioni e la geografia, ma non la storia, dei popoli germanici non assoggettati al dominio romano e stanziati ad est del fiume Reno.

E’ l’unica opera prettamente etnografica giunta sino a noi dal mondo greco-romano ma non fu l’unica ad essere composta. Sono andate perdute almeno due monografie di Seneca, “De situ Indiae” e “De situ et sacris Aegyptiorum”, così come perduti sono i diversi interventi almeno di Tito Livio e di Sallustio dedicati all’etnografia delle varie popolazioni con cui Roma era entrata in contatto nel corso della sua storia, inseriti in opere di più ampio respiro non giunte fino a noi.

3.2 La redazione

Per la redazione della Germania Tacito si mantiene sulla stessa linea dei “Commentarii de bello gallico” di Giulio Cesare, che conosce e apprezza. E’ possibile che, come Cesare, abbia avuto informazioni di prima mano dovute alla sua presenza nella regione come legato o propretore, ma non abbiamo la certezza che sia stato in tutti i luoghi descritti: è assai più probabile che molte informazioni siano tratte da autori precedenti. Fra di essi naturalmente lo stesso Giulio Cesare, citato esplicitamente (cfr. per esempio 28, 1-2), ma soprattutto Plinio il Vecchio.

A questi e forse anche ad altri autori più antichi paga un debito pesante: Tacito non solo riporta una descrizione della situazione geopolitica e storica della regione probabilmente molto superata ai suoi tempi, ma non si limita a questo prestito. Ad esempio, sfrutta consapevolmente la distinzione fra Galli e Germani, creata ad arte da Cesare, per identificare questi ultimi come un popolo unitario che gode di caratteristiche comuni nonostante poi, nella seconda parte dell’opera, si dedichi alla descrizione delle usanze specifiche di ogni singolo gruppo di Germani. Limiti a parte, l’opera di Tacito rimane di grande interesse e, come vedremo poi, passibile di svariate, e forzate, interpretazioni.

Epigrafe di Marco Caelio, Centurione della XVIII legione, una delle tre che vennero sterminate nella foresta di Teutoburgo nel 9 d.C. dai germani di Arminio. L’epigrafe venne eretta da suo fratello Publio Caelio a Vetera, dove la legione aveva la propria base. Oggi è conservata al museo di Kalkriese, in Germania

Nei diversi capitoli dello scritto tacitiano emergono alcuni caratteri peculiari dei popoli germani. Il confronto con la corruzione e la mancanza di libertà proprie ormai del popolo romano durante l’età imperiale lo porta a sottolineare alcune caratteristiche dei Germani come la fedeltà coniugale o l’assenza della pratica dell’usura: in una società nella quale il denaro non aveva valore prioritario era ancora ampiamente praticato il baratto.

Germania, XVIII, 1-2

… nei rapporti matrimoniali vige una austerità che costituisce l’aspetto più encomiabile dei loro costumi. Infatti, quasi unici tra le stirpi barbare, i Germani si accontentano di una sola moglie, […]

Germania, XXVI, 1-2

Non conoscono l’uso di speculare sui capitali prestandoli a interesse; di conseguenza, se ne astengono più che se fosse vietato.

Soprattutto Tacito, ignaro delle vicende più antiche delle popolazioni germaniche, osserva quanto questi popoli siano rimasti fedeli alle proprie usanze e tradizioni e da questa caratteristica emerge ciò che inizialmente individua come un riconoscibile carattere autoctono, non mescolato con quello di altre genti, a differenza di quanto accade nel variegato popolo romano:

Germania, II, 1-8

Quanto ai Germani, sono propenso a credere che siano autoctoni, e che non abbiano subito mescolanze in seguito a movimenti migratori o a relazioni pacifiche con altre stirpi: anticamente, infatti, coloro che avevano intenzione di cambiare luogo di residenza non si spostavano via terra, ma trasportati da flotte: e l’Oceano, sconfinato e – per così dire- ostile, che si estende al di là della Germania, è raramente percorso da navi provenienti dalle nostre regioni.

Germania, IV

Io, personalmente, condivido l’opinione di chi ritiene che le popolazioni della Germania non si siano mescolate con altre genti tramite matrimoni, e che quindi siano una stirpe a sé stanti e pura, con una conformazione fisica propria. Da ciò deriva un aspetto simile in tutti, nonostante il gran numero di individui […]
Clüver Philipp, Germaniae antiquae libri tres, 1616, p. 158

3.3 La fortuna della Germania: un libro pericoloso

Questa insistenza circa alcuni aspetti del popolo dei Germani e in particolare intorno a quella purezza di stirpe che evidentemente colpiva particolarmente la sensibilità di Tacito – la abbiamo vista emergere anche nel caso dei Britanni – sarebbe diventata la causa scatenante di un vero caso storico, forse unico e particolarmente intricato: benché sia noto, vale la pena di essere ripercorso per sommi capi.

Il testo De origine et situ Germanorum rimane silente per secoli. L’unico manoscritto medievale che lo contiene e di cui abbiamo notizia è appartenuto all’abbazia di Fulda dove, nel IX secolo, il monaco Rodolfo sembra lo abbia usato come fonte per raccontare il passato pagano del popolo dei Sassoni.

Seguono altri secoli di apparente silenzio, fino all’inizio del terzo decennio del Quattrocento. E’ ancora una volta un monaco tedesco, del monastero di Hersfeld, a rivelarne l’esistenza ad alcuni umanisti italiani e a proporne la compravendita ma senza successo.

Per quanto è dato sapere il manoscritto uscirà dal monastero solo decenni più tardi per giungere, in verità in circostanze non chiare, nelle mani del cardinale Enea Silvio Piccolomini (1405-1464). Questi sfrutta il testo di Tacito per rispondere proprio ad un tedesco, Martin Mayer, allora segretario del cardinale di Mainz, che gli scrive nel 1456 per metterlo in guardia nei confronti dell’insoddisfazione dei germani per la politica di papa Callisto III. Piegando il testo antico alle sue necessità, il futuro papa Pio II ricorda al Mayer che i loro antenati erano rozzi, ignoranti e privi di ogni forma di letteratura, arte o diritto fino a quando non fu la Chiesa a portare il progresso in quei luoghi.

Questo è uno dei primi casi di manipolazione della Germania, seguito da numerosi altri, perlopiù di segno opposto e forieri di ben altre conseguenze.

Nei secoli successivi vediamo più autori riprendere le caratteristiche indicate da Tacito come proprie del popolo germanico per interpretarle come positive: il carattere autoctono, la mancanza di mescolanza con altri popoli, l’incorruttibilità, la fedeltà. Poco importa che Tacito, spesso, nell’indicare questi caratteri opponga poi un commento che ne ridimensiona la valutazione sulla base del confronto con il popolo romano. Questi rilievi etnografici rimangono e vengono ribaditi come basi non prive di fascino per coltivare il mito di quella identità nazionale che porterà poi alla creazione del vero e proprio Stato tedesco.

Uno dei più noti intellettuali che contribuisce alla fama del mito di Tacito è Philipp Clüver, storico e geografo polacco ma di formazione tedesca, autore dell’opera Germaniae antiquae libri tres pubblicata nel 1616. La sua opera conquisterà una fama tale da consentirle di traghettare indisturbata attraverso i secoli, fino agli storici tedeschi del XX secolo, e di influenzare il pensiero sull’origine e sull’etnografia dei Germani descritti da Tacito dall’epoca barocca in poi.

Di qui in avanti le operazioni di rilettura della Germania saranno molteplici e disseminate lungo i secoli. Non è sempre possibile precisare quanto i loro autori fossero consapevoli della portata che queste riletture avrebbero avuto: dal recupero della figura di Arminio come eroe nazionale germanico contrapposto all’impero di Roma, sfruttata nell’ambito della Riforma luterana, alle letture settecentesche di Montesquieu e Rousseau che useranno l’opera di Tacito per elogiare il popolo germanico esaltandone le qualità positive nei loro scritti e contribuendo alla formazione del cosiddetto “spirito nazionale tedesco”.

3.4 L’Ottocento: la costruzione del mito germanico

Nel XIX secolo la discussione attorno all’identità nazionale tedesca e all’eredità dei loro antenati Germani comincia a farsi più marcata: i Discorsi alla nazione tedesca di Johann Gottlieb Fichte (1808), nei quali si sostengono le caratteristiche distintive del popolo tedesco in reazione all’occupazione francese, segnano una tappa fondamentale di questo percorso.

Pochi anni più tardi, nel 1816, lo storico Friedrich Kohlrausch (1780-1867) pubblica la Storia tedesca per la scuola e per la casa allo scopo di farla adottare come libro di testo dalla confederazione degli Stati tedeschi che si era assunta la responsabilità dell’istruzione della gioventù. Ispirato anche dall’amicizia proprio con Fichte, questo libro ha un carattere spiccatamente nazionalistico, adatto al periodo della Restaurazione dopo le campagne napoleoniche. Con un capitolo basato sulla rilettura di Tacito Kohlrausch intende ispirare i giovani della nazione al ricordo di quel popolo antico da cui essi discendono sottolineando, tra le qualità positive, una nuova in particolare: la purezza di sangue.

Questo è solo l’inizio. Svariati studiosi, contemporanei o di poco successivi a Kohlrausch, quali Friedrich Ludwig Jahn (1778-1852), Ernst Moritz Arndt (1769-1860) e Arthur de Gobineau (1816-1882) contribuiscono in maniera significativa ad alimentare il mito della “razza pura”, portato avanti e alimentato da esponenti della classe media istruita educati su questi princìpi e i cui figli continuano a ricevere, a scuola, gli insegnamenti di storia tratti proprio dal testo di Kohlrausch. Da queste premesse, e con la creazione nel 1871 del primo Reich, si sviluppa in Germania il movimento völkisch (da völk, popolo).

Friedrich Tüshaus (1832-1885), La battaglia tra Germani e Romani sul Reno, 1876. Proprietà del Westfälischer Kunstverein.

La passione per il passato germanico di questo periodo porta alcuni studiosi tedeschi a mettere a confronto le lingue antiche. Descrivendo una supposta somiglianza tra sanscrito, greco e latino concludono che queste lingue potevano avere una origine comune in un cosiddetto “popolo ariano”, una ipotetica tribù di origine indo-iranica esistita prima del 2000 a.C. che avrebbe colonizzato e conquistato molte aree del mondo. Fra di esse il Nord Europa, individuato così come culla della civiltà.

A questo panorama si aggiungono le teorie di Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), genero del compositore Richard Wagner, esposte ne I fondamenti del XIX secolo. La tesi dell’umanità in perenne conflitto razziale, formulata in questo periodo e in questo ambiente culturale, porta Chamberlain a delineare l’esistenza di una antica rivalità fra germani (ossia i tedeschi) ed ebrei e a datare la sua nascita agli anni successivi alla caduta dell’Impero romano d’Occidente. Accusando gli ebrei di aver attaccato la cultura tedesca attraverso il matrimonio con donne germaniche, che essi avrebbero costretto ad abbandonare le proprie usanze, Chamberlain alimenta con le sue teorie l’immagine di un nemico che è l’incarnazione del male nella storia. Un suo contemporaneo, il giornalista Theodor Fritsch (1852-1933), contribuisce in quegli stessi anni a rendere popolare una nuova di idea di ostilità biologica e razziale nei confronti degli ebrei, identificati come parassiti da schiacciare per la salute della civiltà. Il passaggio dall’antigiudaismo religioso di matrice cristiana all’antisemitismo biologico, razziale e politico viene poi completato dalle articolate vicende e dal successo editoriale dei Protocolli degli Anziani Savi di Sion, il noto apocrifo confezionato per denunciare un presunto complotto internazionale ebraico ordito ai danni non solo del popolo tedesco ma dell’umanità intera.

Peter Jannsen, La vittoriosa avanzata di Arminio, 1873, Lippisches Landesmuseum Detmold.

3.5 Il XX secolo: da Tacito al nazionalsocialismo

Con la salita al potere del nazionalsocialismo tutti questi concetti vengono esasperati fino a raggiungere il loro apice. La sconfitta nella Prima guerra mondiale e la Repubblica di Weimar creano il clima perfetto per una generale adesione ai valori nazionalistici piegati dalla propaganda del tempo. La Germania di Tacito, libro che doveva ricordare ai discendenti degli antichi Germani il loro passato puro e glorioso dopo tanta sofferenza e insoddisfazione, assurge al ruolo di testo ispiratore insieme ad altri testi e ad un più generico riferimento al mondo classico, soprattutto spartano.

Molti gli spunti. Le donne, secondo l’interpretazione del passo di Tacito Germania XVIII-XIX, devono ambire nella propria vita ad essere spose, madri e donne di casa, e non si sarebbero mai dovute unire a qualcuno col sangue meno puro del proprio. In realtà Tacito narra:

Germania, XVIII-XIX

“[…] Perché la consorte non si senta esclusa dalle aspirazioni di valore del marito, nonché dai rischi della guerra, fin dal momento in cui si prendono gli auspici delle nozze, essa è chiamata a condividere fatiche e pericoli, pronta a soffrire e ad osare la stessa sorte, tanto in pace quanto in guerra […] Così la donna deve vivere, così deve, a sua volta, dare la vita: sa che deve rendere ai figli pure e degne le cose che riceve, quelle che saranno ricevute poi dalle nuore e da queste di nuovo trasmesse ai nipoti. […] XXIX. Esse vivono … rigidamente oneste, senza essere guastate né da attrattive di spettacoli, né da eccitamenti di conviti […] Pochissimi sono i casi di adulterio, la cui punizione è immediata e affidata ai mariti […] Nessuno infatti presso i Germani si prende gioco dei vizi, là non si chiama “spirito dei tempi” né il corrompere né il lasciarsi corrompere. […] Così le donne sposano un solo uomo, come hanno in sorte un solo corpo e una sola vita, perché non vi sia in loro altro pensiero di matrimonio oltre quel primo, né i loro desideri vadano al di là di esso

Attraverso l’interpretazione di Germania XXIV, riguardante le attività e l’intrattenimento dei Germani, lo sport e l’esercizio fisico vengono posti al centro dell’educazione del regime nazionalsocialista. Ancora una volta diamo la parola a Tacito:

Germania, XXIV

Unico è presso i Germani il tipo di spettacolo, che è lo stesso ogni qualvolta si riuniscono: giovani nudi, per divertirsi, saltano in mezzo a spade e a lance puntate minacciosamente contro di loro. Con l’esercizio acquistano l’abilità e con questa la grazia, senza, tuttavia, mirare a vantaggi pratici o a mercede; la sola ricompensa al gioco audace è per loro il divertimento degli spettatori.

La fedeltà al Führer viene insegnata alle giovani menti e non solo come valore imprescindibile dello Stato nazista secondo l’interpretazione di Germania XIV – che tuttavia dice:

Germania, XIV

In battaglia, è vergognoso per un capo lasciarsi superare in valore dagli inferiori, ed è parimenti vergognoso per questi non eguagliare il coraggio del comandante. E’, inoltre, marchio d’infamia e di vergogna per tutta la vita, ritornar salvo dal combattimento, quando il capo è caduto; poiché l’impegno più sacro per un gregario è quello di difendere e di proteggere il capitano, e di attribuire alla gloria di lui persino i propri eroismi: il capo combatte per la gloria, coloro che lo seguono combattono per lui.

Non stupisce dunque che Heinrich Himmler abbia cercato più volte di acquisire il cosiddetto Codex Aesinas: ritrovato nel 1902 nella biblioteca del conte Aurelio Guglielmi Balleani. Questo codice è il più antico manoscritto giunto fino a noi contenente l’ Agricola e la Germania di Tacito. Falliti i tentativi di acquisizione per vie legali, Himmler non esita ad inviare un distaccamento delle SS per rubarlo: è l’autunno del 1943. L’operazione non riesce.

Oggi il codice è conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (Cod. Vitt Em. 1631).

Una banconota di emergenza tedesca (fronte e retro) di Detmold, con una rappresentazione della battaglia di Varo basata sulla canzone popolare “Mentre i romani diventavano sfacciati”, del valore di 50 Pfennig – 1920
Banconota d’emergenza tedesca (fronte e retro) dei comuni di Horn (Lippe) e Detmold, con la rappresentazione della battaglia di Varo basata sulla canzone popolare “Quando i romani divennero sfrontati”, del valore di 50 pfennig -1921

Questa storia è stata scritta con il contributo di Lorenzo Ferrari e Daniele Borghi.