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Bernardino Alimena. La “suggestione del male”

Il Panaro. Gazzetta di Modena”, 11 gennaio 1901Inaugurazione dell’anno giuridico

Ieri alle 13 ha avuto luogo l’inaugurazione dell’anno giuridico alla nostra corte d’Appello.

Il discorso inaugurale fu tenuto dal cav. Urangia Tazzoli. L’oratore fatta una disamina acuta e profonda delle proposte di modificazione al codice di procedura nota l’aumento della criminalità, specie nei minorenni, indicandone la piaga e i rimedi terminando: “La scuola deve specialmente servire a tal uopo, e in essa devono essere saggiamente compenetrate e riassunte l’educazione fisica, intellettuale e morale, onde sviluppare tutte le sane energie, reprimere le malsane tendenze, plasmare virilmente e perfezionare, l’io misterioso da cui deve uscire ad un tempo l’uomo e il cittadino”.

1. L’istruzione popolare all’inizio del Novecento

All’aprirsi del Novecento alcuni assetti sociali sono in rapido mutamento. Ne emergono sicuramente nuove possibilità, ma anche segnali preoccupanti che non possono più essere ignorati. L’evidenza è quella di una struttura sociale ancora legata a logiche arcaiche, l’Italia dei gattopardi, una nazione giovane ma vincolata al passato dalla rigidità di modelli sociali e comportamentali antichi.

Uno degli strumenti per poter avviare un’evoluzione strutturale in senso moderno, per emancipare un’intera nazione viene individuato nel doppio binario della formazione, scolastica e permanente, e dell’educazione non più solo affidata alle famiglie, ma presa in carico almeno in parte dallo Stato (e tolta, almeno nelle intenzioni, alle strutture religiose che nel bene e nel male se ne erano fatte carico per secoli).

Per quanto riguarda la formazione degli adulti si assiste ad iniziative diffuse di scuole serali e poi, in modo più sistematico, all’avvio delle pratiche di grande successo dell’Università Popolare e della Scuola Popolare. Ne parliamo qui sotto.

Foto di famiglia, dall’archivio fotografico della Fondazione Collegio San Carlo (inv. 2687)

1.1 Le sfide dell’obbligo scolastico: lo Stato, i Comuni e l’assistenza privata

Tuttavia la grande sfida è ancora la formazione elementare per i bambini, invocata nel 1901, come abbiamo visto, dal cavalier Urangia Tazzoli. Ma perché porre l’attenzione su quello che dovrebbe essere scontato, visto che è obbligatorio per legge?

Formalmente l’obbligo scolastico per le prime due classi elementari entra in vigore nel 1859 e dal 1901 viene esteso fino al terzo anno. Infine, nel 1904, arriva ad includere le prime sei classi elementari.

Nonostante questo, il tasso di analfabetismo nel 1901 è ancora altissimo: si stima che quasi la metà degli italiani sopra i 6 anni non sappia leggere né scrivere, con percentuali molto differenti da regione a regione. Se a questi si sommano i semi-analfabeti si ottiene un quadro di arretratezza che non può più essere ignorato.

Uno dei temi del dibattito riguarda proprio i provvedimenti da adottare per far sì che l’obbligo scolastico formale, dettato dalla legge, possa davvero essere assolto, superando ostacoli di varia natura. Lo Stato in effetti sprona i Comuni a provvedere: secondo la Legge Orlando del 1904 è loro il compito di istituire un fondo per “sovvenire gl’iscritti appartenenti alle famiglie povere”. I vari governi che si succedono però non stanziano fondi in aiuto ai Comuni e le amministrazioni locali sono di fatto lasciate sole nell’adempiere ad un compito che occupa, e preoccupa, l’opinione pubblica.

Il dibattito intorno all’istruzione come tema legato alla giustizia sociale assume proporzioni significative e, a ondate, finisce per occupare le prime pagine dei quotidiani. La realtà fotografata dai giornalisti, al di là delle leggi e dei proclami, è quella di un paese in cui è necessario procurare ai bambini libri e quaderni, un pasto caldo e nutriente (a volte l’unico della giornata), le scarpe e, non da ultimo, un locale riscaldato per il doposcuola. Viste le difficoltà dei Comuni, queste iniziative vengono perlopiù demandate alla carità privata e religiosa.

Tuttavia nei primi anni del Novecento non è solo l’istruzione, o la mancanza di istruzione, ad allarmare opinione pubblica e giuristi, ma soprattutto le conseguenze dirette di una povertà educativa e culturale che spinge sempre più giovani e giovanissimi ad atti o comportamenti criminali. E’ necessario e fortemente sentito un dibattito pubblico che viene stimolato, fra le altre sedi, anche in istituzioni di recentissima formazione e di grande successo, come le Università Popolari.

"Il Panaro", 14 gennaio 1914

Istruzione popolare
Il primo dovere della politica è l’educazione; il secondo è l’educazione; il terzo è l’educazione” (Michelet).
Trattandosi di problema, dalla cui soluzione dipende il fiorire della civiltà italiana, è doveroso parlarne spesso, con amore, illustrandolo sotto tutti i suoi aspetti onde l’azione statale, congiunta a quella dell’iniziativa privata, getti nella nuova coscienza nazionale la profonda convinzione che, se con l’istruzione e con l’ingentilire i costumi non redimeremo gli alfabeti e non scuoteremo le anime addormentate o cloroformizzate dal basso lucro personale, noi non potremo mai onestamente parlare di progresso italiano [...]
Il grande filosofo Giovanni Bovio alla Camera pronunciava le seguenti parole: “Il problema didattico in Italia è problema di prim’ordine. Rafforzate, raddoppiate le armi di terra e di mare: munite fortezze e battaglioni preparati a ogni impresa, voi siete deboli, se debole è la scuola. I vostri Atenei, ecco i vostri primi baluardi, i vostri laboratori scientifici, questa la prima artiglieria!”
Codesto, ha ragione l’onorevole Credaro, non comprese ancora la democrazia italiana.

2. L’Università Popolare di Modena

Nella primavera del 1901 a Modena viene aperta la sezione locale dell’Università Popolare, la prima esperienza strutturata di formazione rivolta agli adulti, libera e aperta.

L’iniziativa si colloca in un contesto europeo dove, già nell’ultimo scorcio del XIX secolo, si erano intensificati gli sforzi dei movimenti progressisti e delle istituzioni accademiche per la diffusione della cultura superiore agli strati svantaggiati della società. Preceduta dalle inglesi University extensions e dalle parigine Universités populaires, in Italia la prima Università popolare sorge a Torino nel novembre del 1900, seguita in rapida successione da progetti analoghi, tutti indipendenti fra loro e finanziati da contributi degli enti cittadini, dalla beneficenza locale e dalle modeste quote d’iscrizione. L’Emilia ha un ruolo di primo piano, contribuendo alla nascita della federazione fra le diverse sedi nazionali sancita dal congresso di Bologna del 1904.

Lo storico della medicina Pericle Di Pietro ha raccolto le poche e scarne notizie reperibili sull’esperienza modenese. Ma i dibattiti generati da questa realtà, più volte accusata di velleità ideali dagli ambienti conservatori, possono essere rintracciati e ricostruiti grazie alla stampa locale dell’epoca che dedica inizialmente poche righe all’iniziativa, per poi via via interessarsi sempre più ad un fenomeno in crescita fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

Ed è proprio dall’esame della rassegna stampa modenese fra gli ultimi anni dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento che emergono gli umori del dibattito in corso.

Iniziata prima dell’esperienza italiana, la Societé Nationale del Conférences Populaires è attivissima: organizza, nel solo 1897, circa 30.000 conferenze ma i risultati non sembrano all’altezza delle aspettative.

Nella “Nouvelle Revue” del 15 giugno 1898 (da “Minerva”, vol. XVI, n. 1, luglio 1898, pp. 85-86), Gustave Téry fa notare che, nelle città dove si tengono le conferenze per adulti, queste divengono riunioni della classe borghese nelle quali “l’operaio non osa penetrare”. I corsi d’istruzione dedicati agli operai sono poco conosciuti e poco efficaci perché tenuti da insegnanti, mentre dovrebbero avere “per oggetto cose d’interesse immediato” e sarebbe quindi importante che a tenerli fossero “medici, avvocati, ingegneri, architetti, industriali e commercianti”. Inoltre si punta il dito contro la sede dei corsi stessi che si tengono a scuola, mentre sarebbe importante tenerli in altri luoghi che consentano di integrare l’istruzione con lo svago, dove sia presente musica, o spettacoli teatrali, “per sottrarre il popolo alla malsana influenza dei caffè-concerti e delle osterie”.

Si auspica anche per la Francia un sistema simile a quello inglese: “Poiché … più che istruire il popolo, quello che importa è di educarlo, sarebbe bene che in tutte le grandi città di provincia, accanto ai vari istituti filantropici […] sorgessero stabilimenti simili ai ‘Palazzi del popolo’ di Londra e della maggio parte delle città inglesi: case che offrissero, sopratutto nelle serate invernali, un insieme di oneste e sane ricreazioni non solo ai giovani operai, ma anche alle donne, ai fanciulli, ai poveri vecchi abbandonati”.

L’esperienza italiana ripercorrerà questa stessa difficoltà di allargare la platea delle conferenze dell’Università Popolare oltre la sfera borghese: i temi e il linguaggio usato, che cresce e si raffina negli anni, contribuiscono a creare una barriera fra possibili pubblici, privilegiando sicuramente un uditorio che aveva almeno avuto accesso all’istruzione di base. Nasceranno così le Scuole popolari, specificatamente dedicate agli operai, i cui temi – salute, igiene sui luoghi di lavoro, diritti – ne consacreranno per un certo periodo il successo.

2.1 I relatori e i temi

La vita dell’Università Popolare ha inizio per l’intraprendenza di Giuseppe Triani, Rettore della Regia Università di Modena e professore di procedura civile. Il comitato promotore è composto da ventidue uomini di cultura – soprattutto accademici e docenti di liceo – e, come chiarisce lo stesso Triani nel suo discorso inaugurale, ambisce “a generalizzare i benefici derivati già da compiuto lavoro scientifico”, a diffondere cioè fra la gente comune il sapere elaborato nelle aule universitarie nel nome di una laica e risorgimentale “libertà guadagnata con secolari battaglie”.

Beninteso, per la politica non c’è spazio visto che l’istituzione, sempre secondo Triani, deve mantenersi “estranea ad ogni questione di principi e di opinioni, onde nessuno, entrandovi, debba abbandonare alcuna parte delle sue idee”. In un primo tempo i locali della Regia Università di Modena ospitano le attività della nuova istituzione ma ben presto risultano insufficienti e, dal dicembre del 1905, l’Università Popolare trasferisce in parte i suoi corsi nella sala cardinali dell’adiacente Collegio San Carlo.

L’Università Popolare di Modena, si legge nel suo statuto, “adempie al suo fine” attraverso “cicli di conferenze, lezioni e trattenimenti scientifici, letterari ed artistici ad istruzione di ogni categoria di persone; corsi di insegnamenti serali per operai; gite collettive di istruzione”.

La Sala Cardinali del Collegio San Carlo preparata per una lezione, con telo e proiettore montato sulla scaletta: per la storia delle primissime proiezioni per le lezioni di storia dell’arte, proposte proprio in questa sala, vedi la storia di Mario Martinozzi

Si va dagli argomenti letterari, soprattutto prosa, poesia e storia della lingua italiana, fino alle scienze naturali, passando per le lezioni di storia dell’arte (per le quali ci si avvale, fin dal 1901, del proiettore con il telo alle spalle del relatore, come si vede nella foto qui sopra), la musica, l’educazione, la geografia, la filosofia, la storia anche locale; in questa sede vengono illustrate le scoperte e le innovazioni tecnologiche, ma non di rado si trovano anche temi provenienti direttamente dai fronti più avanzati del dibattito sulla criminologia, alla famiglia e alla struttura sociale che cambia, o intorno all’educazione

Fra i temi affrontati emerge più volte la Giustizia, intesa in senso ampio, specialmente in relazione ai princìpi del diritto, alle cause naturali e sociali del delitto, alla psicologia criminale, alla criminalità femminile e a quella infantile, temi all’ordine del giorno in una società che comincia ad affrancarsi dalle rigidità del positivismo e dell’atavismo.

2.2 Le cattedre delle donne

Fin dai primi anni non mancano le conferenze, di diverso argomento, tenute da donne.

Le relatrici si dedicano a letteratura, storia e realtà femminili e familiari. Chi ne documenta l’attività è il segretario del Collegio San Carlo, Pietro Costa Giani, che tuttavia fatica a prendere confidenza con i tempi moderni e, quasi a giustificare questa novità in un contesto collegiale secolare e rigidamente maschile, non manca di ricordare che in queste occasioni ci sono sempre signore e signorine nel pubblico.

Lavinia Sacerdoti nel 1905 parla dell’VIII canto dell’Inferno alternandosi al professore di letteratura del collegio, il già citato Mario Martinozzi, che affronta gli altri canti. Emma Grandi nello stesso anno approfondisce “Gli albori del Risorgimento italiano”.

Iolanda Bencivenni, nell’anno accademico successivo, parlerà di “Storia e poesia del lavoro femminile”,

Negli anni accademici 1907-08 sempre Sacerdoti e Bencivenni tengono alcune lezioni su Carducci, alternandosi a Lina Maestrini che discute di “Alcune recenti istituzioni pro infanzia e fanciullezza” e ancora de “Le donne modenesi nel Risorgimento”.

Segue un lungo silenzio. Fin dall’inizio degli anni Dieci aumentano gli approfondimenti di carattere militare, segno della tragica chiusura della Belle Époque. Con l’eccezione di Margherita Berio che tiene una lezione su “Musica e musicisti russi e scandinavi” nel 1915, le donne scompaiono dal palinsesto.

Il dibattito sul ruolo della donna, sulle sue possibilità e sui suoi diritti si accende nei giornali fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Il giornaleDie Zeitdell’11 giugno 1898 (da “Minerva”, vol. XVI, n. 1, luglio 1898, pp. 74-75), in un articolo intitolato La donna del secolo ventesimo prevede un secolo di lotte: “Il periodo della lotta dalla quale dipende il rinnovamento sociale e psicologico della donna durerà molto probabilmente fin quasi alla fine del secolo ventesimo, e terminerà quando la donna, maritata o no, sarà pareggiata giuridicamente all’uomo; quando la società si sarà ordinata in modo che l’attual concorrenza fra i due sessi sarà terminata così da soddisfare tutti e due; quando il lavoro domestico avrà acquistato forme tali che la donna sarà meno duramente oppressa di quanto lo è ora. Ecco come la signora Ellen Key… descrive il tipo della donna avvenire“.

Tuttavia l’articolo prosegue: “la sua più grande importanza per la civiltà sarà quella di difendere l’umanità dai pericoli della cultura troppo raffinata per quel non so che di misteriosi, di primitivo, di sentimentale e d’impulsivo che è proprio della sua natura; essa contribuirà sopratutto allo sviluppo dell’anima, mentre l’uomo contribuirà allo sviluppo dell’intelligenza“.

In “Le Correspondant del 10 giugno dello stesso anno (da “Minerva”, vol. XVI, n. 1, luglio 1898, pp. 79-81) si legge una riflessione sulla questione femminista in Italia, indicando fra le cause dell’opposizione al movimento femminista che si riscontano nel paese:

l'amore ancora preponderante nel cuore della donna, la vita di famiglia intimamente organizzata, la religione conservatrice, il livello più basso di cultura della donna italiana in confronto con quelle di altri paesi, e finalmente l'idea, inveterata nel popolo, della padronanza dell'uomo sulla donna [...] Le italiane che più contribuirono alle riforme legislative in favore del loro sesso e allo sviluppo dell'insegnamento femminile, si guardarono dall'inalberare la bandiera del femminismo, fedeli al motto di Erminia Fuà Fusinato: "Secondo me, il termine emancipazione della donna significa: emancipazione dalla miseria e dalla ignoranza".
Dopo l'Esposizione femminile Beatrice organizzata nel 1890 a Firenze, si formò un comitato per propugnare in favore della donna l'educazione integrale e i diritti civili e politici. [...] Le Leghe femministe [...] si sono limitate a iniziative d'ordine filantropico ed educativo, piuttosto che sociale e politico: casse di assicurazioni materne, società protettrici delle istitutrici, riforma degli ospizi e istituti per fanciulle povere, fondazione di scuole professionali per figlie d'operai, ammissione delle donne nei Consigli amministrativi delle opere pie, conferenze d'igiene per operaie ecc. ecc.

Benché alcune donne stiano accedendo a ruoli impiegatizi, o ad altre professioni, la maggioranza delle lavoratrici è insegnante. “Da ventidue anni sono aperte alle donne italiane le Università; ma, dopo i primi entusiasmi, succedette una sosta, tanto più che alle laureate in legge non è permesso l’esercizio dell’avvocatura, e quelle in medicina non trovano clienti” (ibid.). Le differenze regionali sono ancora estremamente accentuate, e diventano meno sensibili solo nella ristretta categoria delle donne che hanno la possibilità di viaggiare.



"The North American Review", gennaio 1898 (da "Minerva", vol XV, n. 2, feb. 1898)

La potenza intellettuale della donna
E' ben vero che la donna non ha mai conquistato i posti più eminenti e nella scienza e nelle letteratura e nell'arte. Ma da questo, che essa non li ha ancora conquistati, non si può dedurre la conseguenza che essa non possa conquistarli. Quelli che simile cosa affermano, dimenticano che la donna non ha mai avuto le opportunità che ha avuto l'uomo.
[...]
Se le cattive condizioni di un ambiente sociale tarpano le ali al genio maschile, è troppo naturale che le donne, dato l'ambiente in cui sono sempre vissute, non abbiano fornito un adeguato contributo. E noi sappiamo quanti pregiudizi ancora esistono nella nostra società a proposito della cultura della donna. Essi tutti si riassumono nella convinzione che la donna non debba né possa occuparsi d'altro che della sua bellezza e del suo fascino. E avendo da superare tutte queste difficoltà e tutti questi pregiudizi così profondamente radicati nella nostra società, nulla v'è di strano che la donna non abbia ancora attinto le più alte manifestazioni del genio; ma sono già stati frustrati i pregiudizi che altra volta si avevano sulla inettitudine della donna ad apprendere le metafisiche o a compiere i corsi regolari delle Università.

3. Bernardino Alimena

Bernardino Alimena, giurista e criminologo, è uno dei docenti di maggior calibro e più attivi all’Università Popolare modenese. Egli porta con sé, proponendoli al pubblico, i temi del dibattito in corso sui legami sempre più evidenti fra istruzione (o mancanza di istruzione) e criminalità, soprattutto minorile.

Nato Cosenza nel 1861, dopo gli studi a Napoli e Roma viene nominato professore straordinario di diritto e procedura penale presso l’Università di Cagliari. Poco tempo dopo, nel 1899, si trasferisce a Modena, dove ottiene l’ordinariato.

Alimena partecipa a diversi congressi internazionali dedicati all’antropologia criminale e al sistema penitenziario e, nel corso degli ultimi due decenni dell’Ottocento, si attesta su posizioni di critica rispetto alle teorie dello psichiatra e antropologo Cesare Lombroso, uno degli intellettuali più letti e discussi dell’epoca.

Al determinismo biologico, e all’analisi dei caratteri anatomici del fuorilegge proposti dallo studioso torinese, Alimena contrappone la necessità di “dare maggiore importanza, come fattore di delitto, all’ambiente sociale” vero responsabile, ai suoi occhi, della “degenerazione” e, quindi, dei reati. Il giurista cosentino avverte infatti la necessità di combinare lo studio delle scienze sociali con le riflessioni teoriche nel campo giuridico-penale, allontanandosi dunque dall’idea del “delinquente nato”, e ponendosi in sintonia con la crescente insofferenza in tutta Europa verso il positivismo più radicale.

Dobbiamo a lui alcune delle lezioni dell’Università Popolare di più stringente attualità e, insieme, gli si deve riconoscere il merito di aver contribuito ad allargare ulteriormente la platea del dibattito.

Le sue prime lezioni, tenute già a partire dall’anno 1902, sono dedicate alle cause naturali e sociali del delitto e alla psicologia criminale. Dai titoli e dagli scarni resoconti sappiamo che rispecchiano un nuovo approccio alla giustizia, libero da quelle mode biologiche che concepiscono la società come un organismo vivente e il criminale come un ammalato inguaribile, un animale guasto da sacrificare. Il diritto penale, scrive Alimena, non si può permettere di rimanere imprigionato nelle maglie della pseudoscienza, perché “assai più che negli altri diritti, ha importanza la persona umana (…) con il suo corpo e con la sua anima”.

G.B. Piranesi, Le carceri d’invenzione, I ed., 1750, n. 12

3.1 La questione della pena: punizione o rieducazione?

Se il criminale non è un predestinato inguaribile si comprende facilmente perché uno dei temi più discussi e controversi, all’inizio del Novecento, sia la questione della pena. Il tema è così sentito da essere portato anch’esso al pubblico e discusso sui giornali.

Nella lezione tenuta il 28 gennaio 1908 all’Università Popolare l’avvocato Alfredo Padula ripercorre la questione legata al diritto di punire, aprendo ad una serie di lezioni che corrono parallele all’emergere delle stesse tematiche anche sulle colonne dei giornali.

Accanto alla voce di Padula emerge di nuovo Alimena. Per lui la difesa sociale è giustificazione e scopo della pena, la quale non deve essere né istintiva, né vendicativa, né esemplare, ma rieducativa.

B. Alimena, I limiti e i modificatori dell’imputabilità, Torino 1894, I, p. 85

Se si dice che si retribuisce per un fine utile, allora si rientra nella teoria della difesa sociale; ma, se si dice che si retribuisce al solo scopo di retribuire, allora si ricade nella vendetta, perché altrimenti non si può scorgere un altro diverso legame fra il male commesso e un secondo male, che si vuole ritorcere contro di esso

L’argomento è scottante e si incrocia con le altre due questioni: il problema dei minorenni delinquenti e della loro carcerazione, e il crescere spaventoso del tasso di suicidi, in carcere ma non solo.

La protesta dei “Mill Children” per ottenere istruzione, più diritti, la dichiarazione di illegalità del lavoro minorile e una settimana di lavoro da 55 ore, fu avviata il 7 luglio 1903 da Mary Harris “Mother” Jones. Da Philadelphia si spinsero fino alla residenza estiva di Theodore Roosvelt, a Long Island. Il presidente si rifiutò di riceverli.

3.2 Il carattere storico dell’illecito penale

Per avviare il pubblico ad affrontare temi estremamente complessi Alimena, in una lezione del 1905, affronta la questione del carattere storico, e relativo, dell’illecito penale, rappresentato in modo diverso secondo le varie società. Sommando i caratteri sociali e culturali con le spinte individuali, le motivazioni consce o inconsce, le variabili dell’educazione ricevuta (o non ricevuta) dal soggetto, risulta chiaro che chi commette un crimine è al centro di una serie di tensioni proprie come di influenze esterne, e che dunque le sue azioni sono una somma di caratteri individuali e sociali.

Discorso inaugurale della Regia Università di Modena detto a dì 5 novembre 1903 dal Prof. Bernardino Alimena

Uno dice: ammiro questo corpo che è azzurro. Un altro dice: non lo ammiro perché il colore non è una proprietà dei corpi. Un terzo dice: il sapere che il colore non è una proprietà dei corpi, non mi vieta di ammirare un oggetto bello; io, nella cosa, non ammiro l’essenza che mi sfugge, ma la sua parvenza. Similmente il metafisico dice: l’uomo è moralmente imputabile perché egli è l’autore di se stesso; l’antropologo criminalista dice: l’uomo non è moralmente imputabile, perché le sue azioni sono determinate necessariamente; noi diciamo: tutto questo non ci vieta di lodare e di biasimare, perché il nostro apprezzamento si rivolge al fatto come ci si presenta, e non alla sua essenza che ci è ignota. Insomma: la moralità è quasi il colore delle azioni umane, e come non possiamo conoscere i corpi, senza percepire il colore; così non possiamo conoscere le azioni umane, senza apprezzare il loro valore morale (B. Alimena, Imputabilità e causalità. Discorso inaugurale detto a dì 5 novembre 1903 dal Prof. Bernardino Alimena, in “Annuario della R. Università di Modena per l’anno accademico 1903-1904”, Modena 1904, pp. 85-86)

Dunque un illecito è ciò che è, o la sua analisi – e perfino la sua stessa consistenza, il fatto che venga riconosciuto come tale – sono frutto dello spazio e del tempo che si stanno vivendo?

La prima riflessione parte da un dato comune: è costante, ad ogni latitudine e longitudine, il sentimento di riprovazione nei confronti dei delinquenti. Un’azione che appare contraria al senso morale collettivo, ovvero ingiusta, fa scattare la necessità della sanzione o della punizione, come si accennava prima. Ma il punto è proprio questo: cosa viene considerato giusto o ingiusto, accettato moralmente e consentito dalla legge? Non è una questione puramente teorica: per fare un esempio molto vicino a noi, stavolta, nello spazio e nel tempo, è bene ricordare che in Italia la legge sul delitto d’onore venne abrogata soltanto nel 1981.

Queste riflessioni si sommano ad un altro tema, anch’esso dai contorni che necessitano una definizione e che la psicologia e la psichiatria dei primi del Novecento vanno indagando, tema che si somma alla pressione o definizione sociale e culturale del giusto o dell’ingiusto ovvero la questione dello stato libero, non condizionato, del soggetto che commette il crimine nel momento in cui lo compie. L’articolo 46 del codice penale del 1889 recita: “Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti”.

Bernardino Alimena, note filosofiche

Forse, ci si obietterà, che, non solo di fronte al pazzo, ma qualche volta anche di fronte al delinquente, i consociati sentono che forse agirebbero come ha agito lui, se si trovassero nelle identiche sue condizioni. Io rispondo che, in simile caso quest’uomo, di fronte alla coscienza collettiva, non sarebbe più un delinquente, e, di conseguenza, il sentimento della sanzione più non sorgerebbe, mentre, in sua vece, sorgerebbe un altro sentimento: quello del dovere di apprestare mezzi preventivi.

La sfida per una scienza nascente come la criminologia, incalzata dal succedersi degli eventi da una stampa sempre più agguerrita, da scuole di pensiero diverse e soprattutto da una realtà sociale in rapidissima trasformazione, è la strutturazione di un sistema per tutte queste variabili, la costruzione di una teoria onnicomprensiva.

3.3 Istruzione e criminalità minorile

All’inizio del Novecento si acuisce il problema della criminalità minorile, da quasi vent’anni al centro del dibattito internazionale; sulla stampa le voci sul preoccupante crescere del fenomeno si fanno insistenti.

Sono due le tematiche principali di discussione, necessariamente declinate in forme diverse rispetto al parallelo dibattito che coinvolge anche la riflessione sulla criminalità degli adulti: la questione della prevenzione, e la questione della punizione. Alcuni intellettuali di peso e di larghe vedute, come lo stesso Alimena o Attilio Muzzarelli, anch’egli intervenuto sul tema all’Università Popolare, indicano come una delle concause di grande peso la mancanza di un’istruzione adeguata.

"Il Panaro", 7 dicembre 1907

Il problema dell’infanzia.

Per i fanciulli che spiegano tendenze delittuose e che nei delitti precipitano, [ci vorranno] non già il carcere, che deprime, ed acuisce gli istinti cattivi, specie mercé le cattedre che ivi tengono i detenuti adulti, veri maestri in delinquenza, ma colonie agricole, lavoro normale, cibo sano ed abbondante, la psicoterapia dell’amore.

Perché se è scientificamente vero che quando nel fanciullo funzionano i geni micidiali dell’eredità criminosa, dell’atavismo alcoolico, ben poco può l’educazione; non è men vero che questa può dare qualche utile risultato, specie quando imperi un rigoroso sistema scientifico di selezione, e non occorre dimostrare come il risultato sia sempre grandioso e socialmente utile, quante volte si riesca anche su mille incorreggibili a salvarne uno… Tutte queste riforme, che debbono – come dissi – far parte di un tutto armonico, e che nella loro attuazione occorre siano affidate a uomini ad hoc, e non già a personaggi decorativi, assicureranno all’Italia un posto onorevole nella storia del progresso umano.

Come riflessione conseguente viene puntato il dito sulle carceri che troppo spesso associano adulti e ragazzi:

Università popolare, lezione VI°

26 Novembre 1908. Ieri sera il Dottor Attilio Muzzarelli tenne la sua lezione sui minorenni delinquenti. Incominciò la sua lezione con una accurata e profonda indagine sulle cause che producono quella terribile piaga che è la delinquenza dei fanciulli: ignoranza, pauperismo, malattie fisiche e morali, acquistate o ingenite. Bollò con parole roventi i metodi che la società odierna adopera nella repressione di quella delinquenza, i quali mettono a contatto cogli adulti già perversi e maestri nel delitto, i giovani, non ancora completamente corrotti, ed infine enumerò i rimedi che sarebbero necessari per far diminuire quella criminalità, che è una delle più grandi e vergognose brutture della nostra società.

W. A. Rogers, One Reason for the Child Labor Problems, New York Herald, 28 Feb. 1903, riprodotto in D. MacLeod, The Age of the Child: Children in America, 1890–1920, New York, 1998, p. 115.

Al primo congresso nazionale della Società di patronato carcerario, svoltosi a Palermo nel 1910, Alimena sollecita la creazione di una magistratura speciale per il trattamento della delinquenza minorile, il cui compito deve essere quello di provvedere e vigilare sull’istruzione, l’educazione, la disciplina e la correzione dei giovani. Nel medesimo anno, entra nella commissione reale per lo studio di provvedimenti contro la delinquenza dei minorenni – istituita poco tempo prima dal Ministro di Grazia e Giustizia Vittorio Emanuele Orlando – con lo scopo di studiarne le cause e di redigere un codice legislativo moderno per l’infanzia. Membro della terza sottocommissione, il penalista cosentino si concentra sui meccanismi di assistenza giudiziaria e amministrativa per il controllo e la protezione dei minori contro ogni forma di abuso della patria potestà e della tutela.

I lavori terminano nel 1911, l’anno del primo congresso internazionale dei Tribunali per fanciulli di Parigi, a cui anche Alimena prende parte, e vengono presentati in Parlamento poco tempo dopo; la riforma, criticata da molti, non vedrà mai la luce.

G. P. Piranesi, Le Carceri d’invenzione, prima edizione, 1750, n. 16

In un articolo di “Le Correspondant” del 10 agosto 1898 (in “Minerva. Rivista delle riviste”, vol. XVI, n. 3, settembre 1898, pp. 260-262) viene affrontato il problema del vagabondaggio infantile ” che è la fonte principale della criminalità dei minorenni”. Bambini e ragazzini sotto i 14 che non vanno a scuola, non hanno commesso un delitto determinato ma appartengono “alla categoria dei ‘moralmente abbandonati'” per i quali in Inghilterra sono state approntate le scuole correzionali, ma anche altri istituti industriali come forma di prevenzione del vagabondaggio stesso. Entrambi questi enti sono di natura privata e controllati dallo Stato. Nonostante le voci contrarie, l’azione combinata di questi due tipi di enti sembra avere effetto.

I legislatori inglesi non si sono limitati a reprimere il vagabondaggio col correggere o coll'educare i piccoli vagabondi; essi hanno cercato di inaridire, diremo così, le fonti del vagabondaggio per mezzo di istituti speciali che meritano di essere attentamente studiati.
Resa obbligatoria l'istruzione elementare con la legge del 1870, non paghi di infliggere ammende ai genitori trascuranti, i legislatori inglesi pensarono che era più utile cercare di metter le mani sui giovani vagabondi, e nel 1876 organizzarono un nuovo tipo di scuola industriale, la scuola industriale così detta esterna (day industrial school), in cui gli scolari non passano la notte ma solo la giornata, e nella quale, dopo un primo avvertimento dato ai genitori, possono venir mandati i fanciulli di più di cinque anni che non frequentano assiduamente la scuola elementare o che sono trovati in istato di vagabondaggio abituale. Senonché fra questi piccoli vagabondi se ne trovano alcuni specialmente pericolosi, che recano nelle scuole esterne il disordine e l'insubordinazione; e per questa categoria di vagabondi le commissioni scolastiche (school boards) hanno fondato delle scuole affatto speciali, le scuole di vagabondi (truant schools).

In queste ultime, che si configurano a metà fra il collegio e il carcere,

i genitori non sono ammessi a visitare i fanciulli che una volta al mese, per due ore. La disciplina, dati gli elementi che entrano nell'istituto, dev'essere mantenuta energicamente. Quanto alle punizioni, il direttore è contrario all'uso della cella; i mezzi ai quali si ricorre, però in casi estremi, sono la punizione corporale o il rinvio a una casa di correzione.

Chi esce da queste “scuole” o chi non dimostra una attitudine così spiccata per il crimine viene indirizzato alle scuole diurne, anche per fanciulle, nelle quali ragazzini e ragazzine vengono avviati ad un lavoro.

Alla fine dell’Ottocento dibattito sull’impunità è vivacissimo, con contributi da più discipline. Il sociologo Gabriel Tarde pubblica Le leggi sociali, volume nel quale riassume la sostanza di numerose conferenze tenute al Collegio libero delle Scienze Sociali nell’ottobre 1897. Per Tarde l’idea della responsabilità morale è indipendente dalla credenza nel libero arbitrio, che egli considera come una ipotesi abbandonata, e dunque inutile. Ipotesi fieramente rigettata da altri intellettuali, come l’italiano Enrico Ferri, ma in Francia “La Revue du Palais”, del 1898 dà spazio a tre interventi nel corso dell’anno, riassunti sotto il titolo L’anima del criminale nei quali vengono analizzati l’idea di crimine, il rimorso, l’idea di giustizia, l’idea di responsabilità.

Nello stesso anno, a firma diretta dello stesso Tarde, appare nel numero di novembre un articolo intitolato Les transformations de l’impunité (“La Revue du Palais”, anno 2, n. 11, novembre 1898, pp. 167-186), . Il sociologo elenca le tipologie di rapporti possibili fra crimine e pena: 1) il colpevole viene punito – ovvero il caso normale, il che non significa che è un caso abituale; 2) l’innocente è punito al posto del colpevole, ovvero l’errore giudiziario; 3) il colpevole resta impunito.

Quest’ultimo punto, a lungo trascurato, si spiega con l’evoluzione del potere del quale l’impunità è privilegio:

dall’antico patriarca questo privilegio passa al monarca assoluto, poi, attenuandosi via via, alla nobiltà, al clero, all’aristocrazia finanziaria, alla stampa, alle maggioranze elettorali, i cui crimini collettivi sono impuniti come lo erano una volta le estorsioni dei tiranni. […] In certi paesi, si può farsi sostituire nella pena come una volta si faceva da noi per il servizio militare, il che assicura ai ricchi una semi-impunità legale, giacché l’unica ammenda che essi fanno della loro colpa è lo sborsare del denaro; e una forma già molto diffusa di semi-impunità di diritto era la protezione legale di cui godevano, e in parte godono ancora, dei funzionari contro l’azione giudiziaria.

Proseguendo nella riflessione:

Osserviamo, finalmente, che, come l’impunità è privilegio di certi luoghi, di certi tempi (feste religiose, ecc.), di certe categorie di persone, così la si ha per certe categorie di fatti, i quali non sono sempre gli stessi, ma variano nel corso della civiltà, e sono i delitti caratteristici di un’epoca qualsiasi, i quali, appunto perché preponderanti, vengono giudicati con maggiore indulgenza.

La criminalità collettiva, in tutto ciò, rimane quasi sempre impunita. Se in passato era soprattutto sanguinosa e brutale; oggi è soprattutto astuta e perfida: al leggendario brigantaggio rurale d’una volta si è sostituito il brigantaggio di città, impunito ed impunibile. Chiude con la denuncia dell’impunità riguardo la criminalità politica e collettiva, ovvero degli abusi commessi dalle maggioranze contro le minoranze, delle rapine in grande esercitate dai popoli civili sui loro coloni, crimini in forte ascesa per le quali non esistono statistiche e che godono di una impunità di diritto o di fatto.

3.4 Il crimine disturbante: quando a delinquere sono le donne

3.5 Un male antico e un problema crescente: melanconia e suicidio

Domenica 26 maggio 1901, Cesare Lombroso firma un articolo apparso anche sul Panaro nel quale analizza le motivazioni e lo svolgimento del cosiddetto suicidio dell’anarchico Bresci. Idee in merito a parte, in chiusura viene puntato il dito sulla carcerazione cellulare. I numeri forniti dal commendator Canevalli, direttore delle carceri italiane, e riportati nell’articolo, sono inequivocabili. Nella carcerazione cellulare si osserva un’impennata di “impazzimenti”, come vengono chiamati, e di conseguenza di suicidi: nel decennio 1890-1899 si tolgono la vita lo 0,55 per mille fra i rei condannati a vita comunitaria, e il 19 per mille fra i condannati a segregazione cellulare.

L’aumento dei suicidi anche nella società civile è esponenziale nei primi anni del Novecento e i giornali non possono non occuparsene.

"Il Panaro. Gazzetta di Modena", 1 febbraio 1901
La mattina del 31 gennaio il treno che giunge a Modena da Mantova circa alle 7, giunto fra i caselli 5 e 6, passata la stazione di Soliera, dovette fermarsi; un corpo umano ingombrava il binario.
Prima si credette trattarsi d’un ubriaco, ma poi si constatò trattarsi di un cadavere orrendamente sfracellato.
Avvertite le autorità, si recarono sul luogo i carabinieri di Campogalliano, e il pretore del Secondo Mandamento.
Il cadavere poté quindi essere identificato: il disgraziato era certo Geminiano Gualtieri d’anni 24, canepino, nato a Carpi, e domiciliato in Soliera.
Da indagini ulteriormente fatte pare risulti che il Gualtieri amoreggiasse da tempo con tale Elvira Setti di Soliera: i contrasti frammessi a questo amore dai genitori della ragazza pare avessero indotto il giovanotto in una truce malinconia. Certo è che egli mancava dalla sua abitazione fino dalla mattina del giorno antecedente alla triste scoperta del suo cadavere sul binario Ferroviario: ed è probabile che al suicidio egli sia stato condotto dalle sue pene amorose.

All’inizio del Novecento per descrivere lo stato d’animo del suicida si ricorre ancora alla malinconia, alla lipemania e all’ipocondria, nel solco dell’antica teoria degli umori. Col tempo vengono chiamate in causa la pazzia, l’alcolismo – altra piaga dei tempi – o ancora altre forme di influenza esterna, anche nel tentativo di individuare giustificazioni razionali. E’ qui che possiamo scorgere il graduale insinuarsi delle nuove frontiere della psichiatria e della psicoanalisi, che entrano persino nel linguaggio e nell’uso quotidiano.

La prospettiva psicoanalitica, sempre più orientata ad un esame scientifico del funzionamento della mente umana, si sta imponendo con tutte le difficoltà dovute agli scontri fra Sigmund Freud, inizialmente interessato all’ipnotismo terapeutico, e i suoi numerosi allievi.

Nei giornali gli assassini vengono spesso identificati come alienati, i suicidi come nevrotici, i criminali comuni come “poveri pazzi” in preda a deliri incontrollabili di origine misteriosa.

Non stupisce dunque constatare l’interesse di Alimena per questi temi, documentato dalle sue lezioni all’Università Popolare incentrate “sul mondo e sulla vita interiore”, “sulle soglie della coscienza” e sul concetto di suggestione collettiva. Mentre diventa sempre più netta la sua posizione sull’influenza determinante dell’ambiente esterno sul comportamento – anche criminale – dell’individuo, il giurista cosentino approfondisce questioni che s’intrecciano con le spinte di rinnovamento della scienza giuridica, in gran parte ancora condizionata dall’antropologia criminale.

G. B. Piranesi, Le carceri d’invenzione, seconda edizione, 1761, n. 15

4. La suggestione del male

Il tema della limitazione della libertà personale non percepita dal soggetto veniva da molto lontano. I primi esperimenti di suggestione, mutuati e trasformati dalle antiche pratiche esorcistiche e poi spogliati di ogni carattere religioso, si erano trasformati nel tempo (e grazie a numerosi psicologi e neurologi) nelle pratiche di ipnosi, attuate in più modi e secondo i dettami di diverse scuole, ma in modo sempre più consapevole e controllato.

Più sottile, e più pericolosa dell’ipnosi perché non controllata né controllabile, è la suggestione che un individuo subisce. Un ramo del dibattito sulla effettiva libertà individuale riguarda anche le azioni che un individuo, suggestionato da un altro, può arrivare a compiere.

Nel 1910, in parallelo alle sue riflessioni su quest’ultimo tema, Alimena tiene una conferenza dal titolo “Alle soglie della coscienza”. E’ l’occasione per parlare di argomenti come il mondo cosciente, la “cerebrazione incosciente”, la coscienza subliminale o incoscienza. Nella relazione di quella conferenza, così come ci viene riportata da un giornalista, si mescolano in realtà nozioni di varia natura al punto che è difficile dire quanto la tematica sia davvero parsa comprensibile per un pubblico sostanzialmente impreparato. Lo stesso impaccio si coglie anche nelle parole del già citato segretario del collegio, Pietro Costa Giani, fedele compilatore di quarant’anni di cronache grazie alle quali si possono ricostruire le vicende di Modena a cavallo fra Ottocento e Novecento, dell’Università Popolare, l’evolversi dei temi trattati e quindi anche la comprensione piena, o parziale, di alcuni temi particolarmente spinosi o all’avanguardia.

Pietro Costa Giani, Cronaca del Collegio San Carlo, 21 aprile 1910
Il Prof. Bernardino Alimena tenne ieri sera la sua lezione all’Università Popolare sulla suggestione del male. Le azioni umane possono essere suddivise in due categorie: e cioè quelle che sorgono per un impulso intimo della coscienza, e quelle del mondo esteriore che entrano nell’animo nostro, azioni cioè che passivamente noi accogliamo. Esistono coscienze, deboli, non illuminate, che vivono del riflesso di altre coscienze: lo studio di questo fatto è il tema della conferenza.
Varie sono le forme della suggestione: l’idea accettata, il consiglio, l’automatismo, la sovrapposizione di una coscienza sopra un’altra. L’idea accettata è la convenzione, che di una coscienza più forte passa ad una meno forte.
Prima di arrivare alla suggestione, vi è la seduzione, che consiste col far perdere a qualcuno la via della propria vita e della propria anima. Gli elementi causali della suggestione sono varii: l’ereditarietà, l’ambiente di cui troppo si parla, sebbene sia senza dubbio importante, il clima storico, ove noi inspiriamo le nostre idee e le correnti sia del bene che del male.
Senza dubbio, dice l’oratore, ci sono persone dalle quali emana un fascino, che non può definirsi, che non si comprende in che cosa consista: se si consultasse la storia dei grandi processi, si potrebbe indicare una condizione negativa, quelli di non essere belli per riuscire affascinanti. Ancora: uomini di moralità al di sotto della media, hanno esercitato un fascino grandissimo.
E’ necessaria una coscienza più forte per dominare una coscienza debole.
Esiste poi la suggestione collettiva: in questi casi vi è come un contagio nervoso, e quasi un’anima collettiva che si sostituisce alla anime dei singoli. Il fenomeno è dovuto alla reciproca suggestione dei componenti la folla verso lo stesso effetto collettivo e anonimo, nella speranza dell’impunità.

Come si accennava sopra, negli anni subito precedenti la prima guerra mondiale i temi cambiano. All’Università Popolare si assiste ad un lento e progressivo insinuarsi di temi propagandistici, e gli stessi docenti via via si ritirano dalle frontiere del pensiero critico per accomodarsi in zone più confortanti, e meno pericolose, della letteratura, della poesia, della geografia.

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del 1915, i corsi dell’Università Popolare modenese continuano con regolarità per un certo tempo, ma la mancanza di combustibile per riscaldare le aule nel biennio 1917-1919 e la morte del presidente Triani contribuiscono al lento declino del numero delle lezioni.

Nel 1920 si organizzano i consueti tre cicli di conferenze fra gennaio e maggio, tuttavia i soci sono notevolmente diminuiti, tanto che si decide di aumentare in modo considerevole la quota d’iscrizione individuale. Dopo le notizie della prima metà del 1920 non si trova più alcun avviso o programma delle lezioni. Gli scioperi generali di aprile, segnati dall’eccidio in Piazza Grande che lascia sul selciato i corpi senza vita di cinque operai, uccisi dai carabinieri durante il comizio delle due Camere del Lavoro, e la stagione delle violenze del Fascio modenese, una delle componenti più intransigenti dello squadrismo emiliano, cambiano per sempre l’ambiente locale. Il mutato clima cittadino e nazionale, caratterizzato da crescenti tensioni, non è più adatto all’attività di un ente come l’Università Popolare, che era sempre riuscita a tenersi al di fuori dello scontro politico nonostante il dichiarato impegno sociale e pedagogico.

Sempre meno apprezzata nel clima politico mutato, l’Università Popolare via via chiude i battenti in tutte le città. Il nascente governo fascista, in carica dal 31 ottobre 1922, impone nel 1926 la chiusura delle attività della sede di Roma, l’ultima rimasta attiva.

  • Pericle Di Pietro, L’Università popolare di Modena (1901-1920), in “Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi”, s. 11., v. 5 (1983), 325-336.
  • Giuseppe Triani, Discorso del Presidente prof. G. Triani letto nell’adunanza d’inaugurazione 5 maggio 1901 in un’aula della R. universita degli studi gentilmente concessa, Modena, Società tipografica, 1901.
  • Bernardino Alimena, Le esigenze del diritto penale e le tendenze dei penalisti, in “Rivista di diritto e procedura penale”, 1 (1910)
  • Bernardino Alimena, I limiti e i modificatori dell’imputabilità, 3 voll., Torino, Bocca, 1894-1899
  • Bernardino Alimena, Note filosofiche d’un criminalista, Modena, Formiggini, 1911
  • Davide Molena, Oltre la scuola antropologica: la riflessione penalistica di Bernardino Alimena, Università degli Studi Milano Bicocca, Scuola di dottorato in Scienze Giuridiche, Storia del diritto medievale e moderno, a.a. 2011/2012